Di Javier Martín, da Nuevo Rumbo, organo del Partito Comunista dei Lavoratori di Spagna
12 giugno 2025
Link all’originale
Qualche settimana fa, in Plaza de Callao a Madrid, si è tenuta una manifestazione sotto lo slogan “Più Europa! Per un’Europa sociale e democratica” promosso dalle organizzazioni sindacali (CCOO, UGT e Confederazione Europea dei Sindacati[1]) e da varie associazioni, fondazioni e personalità del mondo culturale, giornalistico e accademico. Tra il migliaio scarso di persone lì riunite c’erano rappresentanti del PSOE e di SUMAR[2] e molte altre figure di spicco del progressismo, tutti in felice comunione davanti a una gigantesca bandiera dell’Unione Europea.
I think tank della grande famiglia della sinistra spagnola devono aver visto nell’appropriazione e nella promozione di questo nuovo socialsciovinismo continentale, che cresce parallelamente all’acuirsi dei conflitti tra le potenze capitaliste, un’opportunità comunicativa: fare proprio un europeismo monolitico di fronte a una destra costretta a guardare con sospetto l’estrema destra euroscettica o “euroincerta”[3]. Questo esercizio comporta la costruzione di una certa narrativa sull’UE che, come ogni narrativa, ha qualcosa di vero, qualcosa di falso e molto di superficiale.
Come se le politiche “neoliberiste” non avessero governato l’orientamento e il senso comune delle istituzioni europee e di molti dei suoi Stati membri per decenni, in particolare nei momenti di “stretta” economica, gli autori del manifesto della convocazione, che replica quella celebrata con maggiore successo a Roma nel mese di marzo[4], cercano di torcere la storia per trasformare in una sorta di essenza europea il proprio modello di gestione capitalista. Nel manifesto, intitolato Appello per l’Europa, si legge: «I valori dell’Europa devono essere salvaguardati, e il suo modello di democrazia sociale – basato sullo Stato di diritto, le libertà, il benessere e la convivenza – protetto. Difendiamo i nostri diritti alla sanità, all’istruzione, alle pensioni e al contenuto del nostro Stato sociale, con lavori dignitosi e ben retribuiti».
Qual è la parte di verità? Che effettivamente i fondamenti e l’impalcatura dello Stato sociale sono “minacciati”, ma Trump e l’estrema destra, la guerra commerciale e la guerra militare con la Russia non sono le cause, bensì le conseguenze. La questione che ci interessa segnalare per ora è che questo rischio esiste tanto per “il modello” quanto, di conseguenza, per coloro che lo rappresentano e lo incarnano. Da qui il fatto che le divergenze tra le diverse correnti e manifestazioni socialdemocratiche oggi siano minime, e da qui anche l’allineamento irriducibile con il progetto europeo e i suoi attuali piani.
L’impostazione dell’Appello per l’Europa percorre lo stesso sentiero dei documenti ufficiali della Commissione Europea, solo che con una vernice di eufemismi e giri retorici che possono esprimere sfumature di gestione, ma che soprattutto rendono la posizione più coerente con la loro narrativa e più solubile nel loro spettro sociologico. È quindi necessario compiere un esercizio di traduzione, scrostare la patina per arrivare al significato reale dell’appello. A tal fine risulta utile confrontarlo con un documento recente ed essenziale per il futuro delle politiche europee: il Libro Bianco sulla difesa europea e il piano ReArm Europe[5].
Il Libro Bianco coincide con l’Appello nel ritenere che l’UE si trovi in un momento critico: «L’Europa si trova di fronte a una minaccia acuta e crescente. L’unico modo per garantire la pace è essere pronti a dissuadere coloro che vogliono farci del male. Stanno minacciando direttamente il nostro stile di vita e la nostra capacità di scegliere il nostro futuro attraverso processi democratici. (…) L’equilibrio politico emerso dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla conclusione della Guerra Fredda è stato gravemente alterato». Vediamo come esprimono questa stessa preoccupazione gli autori dell’Appello: «Mai come oggi, negli ultimi ottant’anni, l’Europa e la democrazia sociale sono state tanto a rischio. La risposta a questa minaccia è l’Unione Europea: il processo di integrazione di maggior successo sociale, economico e di pace che si conosca».
Come vediamo, la differenza fondamentale è la trasparenza bellicista del Libro Bianco rispetto all’Appello, qualcosa che si nota anche nel modo di caratterizzare “la minaccia”: «Ma un nuovo ordine internazionale si formerà nella seconda metà di questo decennio e oltre. A meno che non contribuiamo a plasmare questo ordine – tanto nella nostra regione quanto al di fuori di essa – saremo spettatori passivi del risultato di questo periodo di competizione interstatale, con tutte le conseguenze negative che ne potrebbero derivare, inclusa la prospettiva reale di una guerra su larga scala. La storia non ci perdonerà l’inazione», e prosegue: «Stati autoritari come la Cina cercano sempre più di imporre la propria autorità e controllo sulla nostra economia e società. Alleati e partner tradizionali, come gli Stati Uniti, stanno anch’essi spostando la loro attenzione dall’Europa verso altre regioni del mondo». L’Appello, dal canto suo, afferma: «L’atteggiamento e le misure di Trump e l’aggressività di Putin hanno accentuato questa minaccia, che si somma all’avanzata dell’estrema destra. (…) La legittimità democratica dell’Europa è indiscutibile, nonostante l’interesse a eroderla da parte di altri regimi illiberali».
Al di là dei toni e della collocazione degli aggettivi e dei nomi propri, la Commissione Europea è più chiara nell’indicare che il problema risiede, fondamentalmente, nella competizione imperialista, nella necessità di garantire la posizione avanzata dell’UE nella catena dell’economia capitalista mondiale in un momento di alta volatilità, cioè di riallineamenti e crescenti conflitti. Ma, soprattutto, è più chiara nelle soluzioni: «È giunto il momento che l’Europa si riarmi. Per sviluppare le capacità e la preparazione militare necessarie a dissuadere in modo credibile le aggressioni armate e assicurare il nostro stesso futuro, è necessario un massiccio aumento della spesa europea per la difesa. Abbiamo bisogno di una base industriale della difesa più forte e resiliente. Ricostruire la difesa europea richiede, come punto di partenza, un investimento massiccio per un periodo prolungato».
In ogni caso, entrambi i testi propongono essenzialmente la stessa cosa: difendere la posizione economica e politica dell’alleanza capitalista che rappresenta l’UE con ogni mezzo, cosa che si può facilmente notare nella sintonia rispetto alla guerra in Ucraina. Dice il Libro Bianco: «Il sostegno all’Ucraina è il compito immediato e più urgente della difesa europea. L’Ucraina è attualmente la prima linea della difesa europea, resistendo a una guerra di aggressione mossa dalla maggiore minaccia alla nostra sicurezza comune»; e dice l’Appello: «La causa dell’Ucraina è quella dell’Europa e dobbiamo mobilitare le nostre capacità economiche, politiche, diplomatiche e intellettuali a favore di una pace giusta e duratura».
Non ci sono esitazioni: sindacati, personalità, fondazioni, ONG e partiti “progressisti” considerano senza mezzi termini la causa dell’Ucraina come quella dell’Europa. All’improvviso, non contano più l’estrema destra, l’autoritarismo e i regimi illiberali; non contano l’illegalizzazione dei partiti di sinistra, il controllo governativo della stampa o l’enorme potere dei gruppi di estrema destra in Ucraina. La verità è che le considerazioni politiche e morali si trovano completamente delimitate e subordinate al proprio interesse economico. La verità è che si tratta di principi incrollabili solo quando servono a mascherare e rafforzare una posizione coincidente con l’interesse fondamentale delle grandi imprese e degli Stati europei, ma diventano sfuggenti e secondari quando non coincidono.
Oltre a quanto detto sopra, colpisce enormemente il fatto che per una guerra nella quale, secondo loro, si gioca il futuro dell’Europa, si proponga di mobilitare ogni tipo di capacità tranne, precisamente, quelle più importanti in una guerra: quelle militari. Si sa, parlare di rafforzare le capacità armate dell’UE, di finanziare e sostenere attivamente un conflitto armato, non è compatibile con la raffinata morale socialdemocratica, benché il resto della loro argomentazione non faccia altro che legittimare proprio tale orientamento. Ci pensa il Libro Bianco a colmare le lacune dell’Appello: «Abbiamo bisogno di una base industriale della difesa più forte e resiliente. Ricostruire la difesa europea richiede, come punto di partenza, un investimento massiccio e prolungato. (…) In un mondo più duro, caratterizzato da una geopolitica ipercompetitiva e transazionale, che si sviluppa su diversi teatri, l’UE deve essere in grado di contrastare efficacemente qualsiasi sfida ed essere pronta persino alle contingenze militari più estreme, come un’aggressione armata».
Questo si collega direttamente alla seguente rivendicazione dell’Appello: «L’UE deve sviluppare la propria autonomia strategica ampliando le sue capacità nei confronti di chi la disprezza e superando la sua dipendenza da altri Paesi». Che cos’è questa “autonomia strategica”? È un termine nato, precisamente, nell’ambito dei dibattiti sull’industria della difesa e che progressivamente si è esteso ad altri settori economici con l’obiettivo di moltiplicare e sviluppare le capacità produttive europee, riducendo così la dipendenza da altre potenze e aumentando la propria competitività in diversi settori. L’urgenza dell’UE di aumentare la propria autonomia produttiva è legata tanto alla perdita di peso nell’economia mondiale rispetto a concorrenti come la Cina e gli Stati Uniti, quanto a un momento generale in cui, di fronte alla diminuzione sostenuta dei tassi di profitto nelle principali potenze e in altre di secondo livello, si cercano nuovi o migliori accessi ai mercati, alle rotte commerciali e di trasporto, alle risorse naturali, ecc. Ma in un mondo altamente spartito, in una rete intricata di relazioni economiche d’interdipendenza, rete tesa e protetta attraverso accordi politici, leggi e regole, ogni movimento, ogni alterazione, implica competizione e conflitto con altri, e i conflitti sono sempre suscettibili di sfociare in uno scontro militare.
La questione, dunque, è semplice: l’autonomia strategica è inevitabilmente intrecciata con l’aumento delle capacità militari, con la preparazione dell’Europa a molteplici forme di conflitto politico e militare, lo si dica o no, si usino eufemismi o meno. Così lo esprime chiaramente il Libro Bianco: «Investire nella preparazione alla difesa europea non solo garantisce la pace di domani; è anche un fattore chiave per la nostra ambizione di competitività dell’industria manifatturiera europea. Le catene del valore o le capacità produttive esistenti nelle nostre industrie tradizionali – come l’automotive, l’acciaio, l’alluminio o i prodotti chimici – possono trovare nuove opportunità riconvertendosi e rifornendo una base industriale di difesa in espansione. Allo stesso tempo, nuovi ecosistemi e catene del valore basati su tecnologie all’avanguardia – come l’intelligenza artificiale o l’elettronica avanzata – possono essere applicati sia a usi civili che militari».
Per questo i nostri campioni della diplomazia non esitano ad affermare: «L’Europa deve promuovere il multilateralismo e un ordine internazionale basato sulle regole e sul rispetto della giustizia e dei diritti umani». In realtà, ciò che stanno dicendo è che vogliono che si mantenga l’ordine attuale. Ma certo! Quell’ordine che ha permesso all’UE e ai suoi monopoli di godere per decenni di una posizione privilegiata per sfruttare lavoratori e lavoratrici in tutto il mondo, depredare risorse, dominare i mercati…
E arriviamo qui al nocciolo degli argomenti imperialisti, a quel rozzo elitarismo caratteristico dell’europeismo: la superiorità civilizzatrice, in nome della quale sono scorsi veri fiumi di sangue in tutto il mondo, che ha giustificato le più grandi atrocità coloniali e imperialiste per decenni. Eccola, parola della “società civile progressista”: «di fronte ai rischi che incombono sull’UE (…), [ci vuole] più Europa e ciò che essa rappresenta come avanzamento civilizzatore».
Sia di fronte a episodi di conflitto militare diretto, sia di fronte a una generalizzazione della guerra tra diverse potenze, i nostri campioni della diplomazia non esiterebbero neanche un secondo a giustificare la guerra in nome della democrazia, della libertà, dei propri valori, del progresso civilizzatore e delle altre fandonie che fanno parte del DNA di quel nazionalismo morbido, grigio e asettico che è l’europeismo. Ciò non solo è stato dimostrato innumerevoli volte nel corso della storia; è che è qualcosa di implicito nei loro stessi comunicati.
La vecchia Europa ha i muscoli un po’ atrofizzati, si è lasciata andare, è stata un tantino sedentaria e ora è costretta a recuperare la salute fisica a tutta velocità ricorrendo agli integratori abituali: l’aumento dei tassi di sfruttamento sulla classe operaia, l’indebitamento e il trasferimento di risorse pubbliche nelle mani dei privati, processi di privatizzazione e riduzione della spesa pubblica, ecc., tutto orientato a rivitalizzare la propria accumulazione, a non essere così soggetta agli interessi di altre potenze e a poter strappare nicchie di redditività ai suoi concorrenti mondiali. Ciò che i socialdemocratici ci dicono è che tutto questo può essere fatto compensando attraverso lo Stato i danni delle dinamiche capitaliste interne e cercando di esaurire le possibilità di mantenere la propria posizione dominante esterna mediante le proprie abilità diplomatiche (la magia della superiorità civilizzatrice, suppongo).
La realtà è che si trovano davanti a una figuraccia gigantesca: l’esaurimento del programma socialdemocratico di gestione capitalista è, in sostanza, la fine di un periodo storico di crescita economica sostenuta del blocco occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, un’espansione che ha permesso che, sulle spalle della classe operaia e delle risorse dei paesi economicamente meno sviluppati, i grandi imprenditori e gli Stati europei ammassassero tali ricchezze da consentire perfino di aumentare le briciole gettate nei propri paesi. Ed è per questo che insistono nel dire che lì si colloca l’origine dei valori europei e che è quell’ordine che non vogliono perdere. Poco importa loro su cosa si fondi il loro “benessere”, poco importa l’impoverimento della classe operaia che dicono di rappresentare se si tratta di un “piccolo sacrificio” per poter mantenere la posizione dell’UE, poco importa se la loro posizione da lacchè facilita il portarci dritti al macello; in fin dei conti, la guerra risana l’economia e crea posti di lavoro.
Le stesse leggi cinetiche del capitale hanno ridotto al minimo le opzioni socialdemocratiche, da qui tutta la farsa del pragmatismo e del senso dello Stato, da qui la differenza sempre più esigua tra le varie proposte di gestione capitalista. Ma il loro ordine è costruito sulla sabbia: i bagliori delle tempeste in arrivo mostreranno alla classe operaia mondiale che tutti i rappresentanti e complici della borghesia hanno lo stesso volto e che, di fronte a loro, sarà, per davvero stavolta, la storia a non perdonarci l’inazione.
Note
[1] Si tratta, rispettivamente, delle Commissioni Operaie e dell’Unione Generale dei Lavoratori, due sindacati spagnoli, e della Confederazione Europea dei Sindacati (ETUC), organizzazione creata nel 1973 quale principale interlocutore delle istituzioni dell’Unione Europea in materia di rappresentanza dei lavoratori a livello dell’Unione. [NdT]
[2] Si tratta del Partito Socialista Operaio Spagnolo e della coalizione della sinistra radicale Sumar, che compongono il Governo Sánchez III, attualmente in carica in Spagna. [NdT]
[3] La destra spagnola è imbarazzata dalle forze a lei contigue apertamente euroscettiche (come ad esempio Vox), senza la quali non ha ad oggi speranza di governare. In questo modo il centro-sinistra spagnolo si considera l’unica forza coerentemente europeista. [NdT]
[4] Per approfondire: Lo spartiacque del 15 marzo, Lordinenuovo.it, 17 marzo 2025. [NdT]
[5] Per approfondire: “ReArm EUROPE” – Strumento multiuso di guerra contro i popoli, Lordinenuovo.it, 30 marzo 2025. [NdT]