L'Ordine Nuovo

Menu superiore

Menu principale

  • Rassegna operaia
  • Capitale/lavoro
  • Classe e partito
  • Internazionale
    • Notizie dal mondo
    • Imperialismo
    • Vita politica internazionale
  • Politica
  • Terza pagina
    • Film e TV
    • Libri
    • Musica
    • Pillole di storia
    • Storia di classe
    • Manifesti
  • Tribuna
  • Speciali
    • Centenario PCdI
    • Lenin 150
    • Rivista Comunista Internazionale

logo

L'Ordine Nuovo

  • Rassegna operaia
  • Capitale/lavoro
  • Classe e partito
  • Internazionale
    • Notizie dal mondo
    • Imperialismo
    • Vita politica internazionale
  • Politica
  • Terza pagina
    • Film e TV
    • Libri
    • Musica
    • Pillole di storia
    • Storia di classe
    • Manifesti
  • Tribuna
  • Speciali
    • Centenario PCdI
    • Lenin 150
    • Rivista Comunista Internazionale
  • Lo sciopero: “weekend lungo” o arma insostituibile in mano ai lavoratori?

  • La corsa al riarmo e la conversione alla guerra della produzione: intervista ai lavoratori della Leonardo promotori della petizione “Non in mio nome, non col mio lavoro”

  • Vita politica internazionale – Quarantaseiesimo numero

  • L’aggressione militare degli USA aggrava la crisi politica in Venezuela

  • Dichiarazione sui massacri commessi dalle Forze di Supporto Rapido a Barah e Al-Fashir

  • “Alterità” nel campo dell’informazione e della comunicazione per un mondo “altro”

  • L’intelligenza artificiale al servizio dell’occupazione: così i giganti della tecnologia sono diventati complici della distruzione di Gaza

  • I neonazisti si riuniscono a San Pietroburgo: il fascismo come arma del capitale

  • L’offensiva contro lo sciopero e la trappola riformista: criminalizzazione, Yolanda Díaz e l’UE contro la classe operaia

  • Finanziaria 2026: il nuovo regalo di Natale alle imprese

Imperialismo
Home›Notizie dal mondo›Imperialismo›La falsa opposizione alla guerra

La falsa opposizione alla guerra

Di Domenico Cortese
29/07/2025
916
0
Condividi:

A seguito della recente espansione della guerra imperialista contro l’Iran e del vertice NATO di fine giugno, hanno fatto prepotentemente irruzione, nel dibattito pubblico italiano, temi come la possibilità della concessione agli Stati Uniti dell’utilizzo delle basi USA e NATO sul territorio italiano e, soprattutto, argomenti come l’incremento delle spese militari, per le quali il suddetto vertice ha stabilito dover raggiungere, per tutti i membri dell’alleanza, il 5% del PIL. Il dibattito pubblico sulle conseguenze e i rischi di una partecipazione alla guerra si è relativamente diffuso ed è stato cavalcato specialmente dall’opposizione, anche perché Giorgia Meloni non ha negato l’eventualità di una concessione delle basi e ha formalmente dichiarato l’adesione alla decisione dell’alleanza militare. In questo articolo vogliamo contestare la credibilità politica delle organizzazioni e dei soggetti che si presentano oggi come “alternativi” al blocco della maggioranza o che sono percepiti, a vario titolo, come punti di riferimento culturale o politico in ottica di una opposizione all’inasprimento della guerra.

L’opposizione “legalistica” alla NATO

Immagini dell’attacco israeliano all’Iran

Il dibattito ha portato alla luce, innanzitutto, varie prese di posizione pacifiste legalitarie, come quelle di un gruppo di 31 importanti giuristi (Pasquale De Sena, Nerina Boschiero, Ugo Mattei, Barbara Spinelli, Luigi Daniele, Veronica Dini e molti altri…) che hanno fatto appello all’illegittimità della concessione delle basi USA e NATO sul territorio italiano al fine di un appoggio della guerra di Tel Aviv contro l’Iran. Si tratta di una posizione che, sebbene non legata ad un’area politica nello specifico, trova molta ricezione negli ambienti del civismo e dell’associazionismo di base. 

Quello che i giuristi firmatari dell’appello sostengono, in sintesi, è che

– l’attacco israeliano all’Iran integra, con ogni probabilità, un uso della forza armata internazionalmente illecito, dal momento che quest’ultima è consentita solo dinanzi a un attacco armato, e non certo per prevenire la preparazione (fra l’altro, indimostrata) di bombe nucleari da parte di uno Stato;

– un eventuale intervento statunitense in appoggio a Israele si configura, dunque, come una forma di complicità, anch’essa internazionalmente illecita, nell’azione militare israeliana;

– ogni supporto fornito a un tale intervento si tradurrebbe altresì, da parte italiana, in una gravissima violazione dell’art. 11 della Costituzione [l’articolo per cui «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»].

Questa posizione, espressa come una rivendicazione scollata da un processo di mobilitazione popolare e da un progetto politico combattivo sul piano sociale, è da giudicare politicamente ingenua. È utile ricordare che, innanzitutto, dal 1948, nessun articolo progressista della Costituzione è stato mai applicato se non a seguito di una stagione di conflitti sociali che ne hanno resa inevitabile, per i capitalisti italiani, l’applicazione, come con l’istituzione dello Statuto dei lavoratori o del Servizio sanitario nazionale (su questo tema una buona panoramica è offerta da un saggio di Chiara Giorgi e Ilaria Pavan). Sarebbe interessante riflettere perciò su quanto, di conseguenza, le istituzioni “democratiche” borghesi, in assenza di lotta sociale, abbiano la funzione specifica di “far sentire le masse coinvolte” e “tutelate” dentro un modello politico-economico in cui vige la dittatura di chi possiede capitali. Ogni appello alla pura formalità legalistica che ometta la necessità di questa lotta svolge la sola funzione di depotenziare l’interesse per quest’ultima al fine di dirottare le energie verso delle iniziative velleitarie e futili e si inserisce nella generale categoria politica del riformismo.

Questo è dimostrato, nel caso specifico trattato dai giuristi di cui sopra, da come, dagli anni Quaranta, le “regole” formali circa le basi USA vengono sistematicamente violate a seconda degli interessi dell’imperialismo statunitense e italiano. In teoria, in Italia ci sarebbero delle basi dedicate all’attività della NATO e (anche se difficili da distinguere dalle prime) delle basi propriamente statunitensi – queste ultime rappresentando una conclamata svendita di sovranità da parte italiana. Nella prassi, infatti, come spiega un documento divulgato da Wikileaks nel 2008, gli Stati Uniti hanno interpretato l’accordo formale di «usare le proprie basi limitatamente alle attività NATO» in senso molto ampio, nel senso che le forze statunitensi possono essere usate per operazioni non NATO (come l’attacco all’Iraq o le “missioni umanitarie” in Africa) purché il governo italiano dia il suo consenso. Il testo spiega che, negli anni, «le autorità militari e politiche italiane hanno generalmente accettato questa interpretazione e concesso il loro consenso in modo relativamente informale». Inoltre, l’obbligo di ratifica del Parlamento di una tale decisione è da sempre oggetto di disputa tra i giuristi (e, in caso di incertezza, è facile capire cosa prevarrà, vista la continua riduzione delle prerogative parlamentari negli ultimi lustri).

L’opposizione “giuridica” alla guerra imperialista, sebbene utile nel contesto di un progetto politico di classe e conflittuale, è perciò qualcosa di molto sterile se fatta passare come una soluzione definitiva. È sempre esistito, infatti, un modo per interpretare adeguatamente o, addirittura, scavalcare le norme, quando è nell’interesse del capitale. Soprattutto, e si tratta di un concetto importante da comprendere, criticare le decisioni della NATO senza rivendicare l’uscita unilaterale da questa alleanza significa non riconoscere il suo carattere imperialista e, quindi, l’inevitabilità del suo fare scelte politico-militari tanto aggressive quanto lo richiedono gli interessi dei capitali del blocco dei Paesi che ne fanno parte. Detto in altre parole, la decisione di incrementare le spese militari nel 2025 è funzionale a una strategia precisa di competizione tra monopoli secondo il contesto attuale e non una mera “scelta giuridicamente sbagliata” che può essere combattuta accettando la logica delle istituzioni imperialiste. Permanere nella NATO equivale a dare carta bianca alla strategia di volta in volta scelta dall’imperialismo che fa capo all’Alleanza atlantica.

L’opposizione in Parlamento: incanalare il dissenso verso lidi sicuri per il capitale

Alla luce di quello che abbiamo già argomentato, è giunto ora il momento di valutare se le opposizioni politiche che oggi in Italia si indignano contro l’aumento al 5% del PIL delle spese militari deciso dalla NATO hanno la credibilità per farlo.

Sul PD non serve sprecare troppe parole. Nella sua storia ha appoggiato tutte le decisioni del blocco NATO, tutte le guerre condotte dai suoi membri ed è uno dei maggiori sponsor della permanenza dell’Italia in questa alleanza.

Il presidente del Movimento 5 Stelle (M5s) Giuseppe Conte con il capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia durante la manifestazione del Movimento 5 Stelle (M5s) ‘Basta soldi per le armi’ per la pace contro il riarmo, Roma, 05 aprile 2025

Più interessante parlare di Giuseppe Conte. Come Presidente del Consiglio, il leader del M5S ha partecipato al vertice NATO di luglio 2018: nelle conclusioni di quell’incontro, i Capi di Stato e di governo dell’Alleanza ribadirono il loro impegno «nei confronti di tutti gli aspetti del Patto sugli investimenti nella difesa concordato al vertice del Galles quattro anni prima, e a presentare piani nazionali credibili per la sua attuazione». Infatti, tutti gli alleati hanno iniziato ad aumentare in termini reali la quantità di spesa destinata alla difesa e, dopo il vertice, Conte ha tenuto una conferenza stampa in cui non ha affermato che l’Italia avrebbe disatteso gli impegni del 2014. Anzi, li ha confermati. In effetti, durante i due governi di Conte la spesa militare dell’Italia è aumentata, arrivando all’1,5% del PIL, secondo le stime della NATO. Un’alleanza che, peraltro, Conte non ha mai detto di voler abbandonare.

Meno credibilità ancora ha il M5S per quanto riguarda le critiche allo stato genocida di Israele, un genocidio che, ricordiamo, non è iniziato il 7 ottobre 2023 ma si è solo intensificato da quella data in poi. L’export di armi verso Israele era stato, infatti, di 12 milioni di euro nel 2021, con il M5S al governo. Proprio nei due anni di governo Conte la vendita di armi italiane a Israele ha avuto il picco dell’ultimo periodo, con 21 milioni nel 2020 e 28 milioni nel 2019.

Per quanto riguarda Alleanza Verdi e Sinistra (AVS), non risultano attualmente dichiarazioni programmatiche riguardo la volontà di lottare per l’uscita dalla NATO limitandosi, Fratoianni, a denominarla “un’alleanza d’altro tempo raramente destabilizzante” – una posizione politica coerente con il restare nel perimetro delle alleanze del Partito Democratico. D’altronde, esattamente come per PD e M5S, per AVS l’alleanza imperialista dell’Unione Europea, è uno spazio politico da difendere, approfondire e cambiare, fomentando l’illusione di una riformabilità dell’UE “dall’interno”. La partecipazione di AVS alla manifestazione guerrafondaia di Piazza del Popolo il 15 marzo, che è stata lanciata per legittimare il piano di riarmo della Commissione Europea, è un indice delle conseguenze di questa posizione che, nel momento in cui occorre scegliere tra una polemica di rottura contro la politica strutturale dell’UE o accettarne con “riserva” le scelte, finisce per schierarsi sempre dalla parte delle istituzioni europee e quindi dei capitali che le hanno avviate e ne determinano le scelte. Da ricordare, infine, che Sinistra Italiana, una delle due parti di AVS, ha partecipato al governo Conte II, Europa Verde, l’altra parte di AVS, ha votato a favore della rielezione di Von Der Leyen a presidente e, di recente, AVS si è astenuta dal voto di sfiducia contro la Von Der Leyen al Parlamento europeo.

Ilaria Salis al Parlamento Europeo

Un altro elemento che testimonia la malcelata accondiscendenza di AVS circa i piani di riarmo della Commissione è la posizione della deputata europea di AVS Ilaria Salis, la quale sostiene apertamente, come contraltare di una uscita degli stati europei dalla NATO (che, come accennato, non rientra peraltro nei piani del suo partito), il progetto di difesa comune europeo, progetto condiviso peraltro dal suo partito e anche dal M5S.

Il cavallo di Troia della difesa comune europea

A questo punto, conviene spendere qualche riga per spiegare l’inganno che si cela dietro gli appelli a una difesa comune nell’UE, rilanciato sia dai partiti citati che dallo stesso governo Meloni. Il progetto di integrazione militare europea, con il falso pretesto della battaglia per l’indipendenza strategica dagli Stati Uniti, entra a pieno titolo nel disegno imperialista delle borghesie europee, nel solco già tracciato da esse negli ultimi trent’anni: il progetto di una difesa comune europea trova le sue radici, infatti, nel Trattato dell’Unione Europea (Trattato di Maastricht) del 1992 e nella dichiarazione di Saint-Malo del 1998, che di fatto sancì la nascita della Politica Estera di Sicurezza e Difesa (PESD). La difesa comune non è da considerarsi come un’alternativa al riarmo: si tratta, invece, di un progetto aggiuntivo alla NATO e del cavallo di Troia per investire nel riarmo e nelle future guerre imperialiste senza affermarlo esplicitamente e senza associarlo direttamente alla politica estera statunitense, sicuramente più difficile da presentare alle masse.

Lo scopo della difesa comune europea sarebbe, ovviamente, aumentare l’efficienza e la potenza militare dell’Unione Europea nel suo complesso, centralizzando varie operazioni e facendo un comando comune. C’è innanzitutto un problema di realismo storico e ipocrisia nella narrativa degli imperialisti europei, che intendono fare passare il progetto dell’esercito comune come una difesa preventiva contro immaginarie invasioni del continente. Mentre dalla fine della Seconda Guerra Mondiale nessuno ha avuto l’intenzione di invadere l’Europa, neppure è realistico, anche per una questione di forze in gioco, che la Russia voglia invaderla oggi. I Paesi europei sono invece stati autori, negli ultimi trent’anni, di invasioni e guerre imperialiste che hanno provocato milioni di morti, tensioni in varie parti del mondo, povertà e flussi migratori. Cosa si sarebbero spinti a fare i Paesi europei se avessero avuto un esercito comune al momento dell’attacco alla Serbia, o dell’invasione dell’Afghanistan, o dell’Iraq, o dell’invasione della Libia, o del colpo di Stato a Kiev del 2014? Quanto sostegno darebbero oggi a Netanyahu? La difesa comune europea è uno strumento per un ulteriore incremento di crimini e tensioni che l’umanità non si può permettere.

Inoltre, pur mettendo da parte il prioritario aspetto umano, è ipocrita invocare l’esercito comune per una questione di risparmio di costi, secondo la tesi, fatta propria anche da Giuseppe Conte, che una difesa comune farebbe risparmiare perché farebbe “economia di scala”. In realtà prima di arrivare a questo livello di produzione e per raggiungere un’efficienza “competitiva” con le superpotenze militari di USA, Cina e Russia occorrerebbero delle spese stratosferiche, anche superiori a quelle del piano di riarmo, che attualmente rendono quasi impossibile colmare il gap. Quale sarebbe la vera utilità di una spesa militare che difficilmente raggiungerà il suo obiettivo dichiarato se non rimettere in moto la macchina del profitto per i monopoli capitalistici europei in un contesto di crisi?

Quando un esponente politico invoca questo piano come alternativa a “quello guerrafondaio” della Von der Leyen dimostra, dunque, di non stare dalla parte dei popoli e del taglio alla spesa militare. La difesa comune e la spesa che essa comporterebbe sarebbe una delle ricette per privare di ulteriori fondi sanità e servizi pubblici e per istigare altri interventi imperialistici dell’Unione Europea.

Questi paragrafi dimostrano quanto sia problematico delegare le lotte contro la guerra ad organizzazioni che hanno come unico scopo dirottare il dissenso verso lidi sicuri per il capitale industriale e finanziario.

Guerra e socialdemocrazia in Europa

Uscendo dal perimetro italiano, sarebbe ora interessante valutare la reale posizione sul tema della guerra imperialista da parte di partiti socialdemocratici che si trovano a essere, spesso, punti di riferimento di molta “sinistra radicale” in Italia.

I leader di Die Linke Ines Schwerdtner e Jan Paul van Aken

Cominciamo con la famigerata Linke tedesca (Partito della Sinistra), partito di riferimento di organizzazioni come Rifondazione Comunista. Abbiamo di recente riportato la traduzione di un articolo del Partito Comunista (KP, Germania) nel quale si osservano le numerose e grosse contraddizioni di questa organizzazione. Ad esempio, qualche tempo fa, a una mozione per bloccare le armi tedesche verso Israele, armi che ogni giorno contribuiscono a moltiplicare le vittime del genocidio del popolo palestinese, la Linke ha risposto confermando il sostegno armato al governo Netanyahu contro ogni aiuto alla Palestina, votando insieme alle forze politiche al Governo in Germania. Nei mesi scorsi, peraltro, la Linke aveva votato una mozione che rivendicava il “diritto di Israele a difendersi”, sottolineando che “l’inattaccabile sicurezza di Israele è la madre della pace in Medio Oriente”. Il 10 ottobre 2023, tutti i membri di Die Linke nel Bundestag hanno votato a favore di una mozione di risoluzione filosionista presentata dai partiti di Governo e dai cristiano-democratici e abbracciata anche dall’estrema destra dell’AfD. Il 7 ottobre 2024, il Primo Ministro dello Stato della Turingia Bodo Ramelow, leader della Linke, ha addirittura issato personalmente la bandiera israeliana di fronte alla cancelleria di stato a Erfurt. Meno di recente, la Linke aveva espresso il suo sostegno all’offensiva della NATO contro la Russia.

Possiamo osservare già in questo caso il tradizionale comportamento di un partito riformista che punta ad avere un ruolo “responsabile” all’interno delle istituzioni capitaliste e non intaccare gli interessi dei capitali che operano nel suo Paese. Avere un ruolo “responsabile” all’interno delle istituzioni capitaliste – le quali, chiaramente, foraggiano la guerra al fine di garantire fette di mercato al capitale a cui sono legate – implica il dover sostenere in qualche modo la guerra imperialista. La conclusione è che partiti come la Linke mirano ad ottenere qualche minima concessione a costo della sofferenza di milioni di proletari.

Il primo Ministro spagnolo Pedro Sànchez

Passiamo alla Spagna e al governo di Pedro Sánchez, oggetto di genuina ammirazione da parte di molti giovani di sinistra – oltre che di AVS – e attuale presidente dell’“internazionale socialista” (unione mondiale di partiti politici d’ispirazione socialdemocratica). Il governo di Sánchez ha da poco rifiutato di spendere il 5% in armamenti, come proposto dal vertice NATO e, per questo, è diventato ulteriormente un paradigma della “resistenza” alla deriva guerrafondaia dell’Unione Europea. Questa percezione astrae, tuttavia, dal fatto che la spesa militare in Spagna è raddoppiata negli ultimi dieci anni, toccando il picco di 24 miliardi di dollari nel 2024 (Sánchez è al governo dal 2018). La deroga (temporanea peraltro) chiesta alla NATO ha molto a che fare, perciò, con necessità contabili e di propaganda e poco con una reale convinzione politica, specialmente considerando che la Spagna non si è opposta all’accordo collettivo di aumento delle spese militari. Ciò risulta rafforzato dalla constatazione che, lo scorso anno, la Spagna ha preso la decisione di inviare 1,1 miliardi di euro in aiuti militari all’Ucraina, scelta che ha, peraltro, aperto una profonda spaccatura all’interno della coalizione del governo del Paese, con il portavoce della piattaforma di sinistra Sumar, Ernest Urtasun, che ha criticato il partito di maggioranza PSOE per aver preso la decisione in modo poco trasparente. Naturalmente, come la Linke, il governo spagnolo e le sue appendici di sinistra come Podemos prima, Sumar poi, non mettono assolutamente in discussione l’appartenenza all’Unione Europea e alla NATO, le maggiori alleanze guerrafondaie e imperialiste del mondo.

Una chiara presa di distanza da queste due alleanze non è neanche nelle corde di La France insoumise (LFI) di Jean-Luc Mélenchon, movimento di riferimento “storico” di organizzazioni come Potere al Popolo e la Rete dei Comunisti. LFI non solo non mette in discussione, come abbiamo analizzato altrove, l’appartenenza organica a queste istituzioni ma, nel suo programma del 2022 (come “NUPES”) si rilancia addirittura l’impegno all’appoggio militare dell’Ucraina nella guerra contro la Russia, non uscendo dunque dalla prospettiva dello scontro tra blocchi imperialisti che tanto sta causando alle masse popolari in termini di costi e insicurezza. Sembra che non si esca dalla “norma” secondo cui, nel momento di esplosione della guerra imperialista, le socialdemocrazie, come successo dai tempi della Prima Guerra Mondiale, si schierino sistematicamente con gli interessi del proprio blocco imperialista, “responsabilmente” rispetto ai capitali a cui deve fare riferimento.

Contestare l’imperialismo o un imperialismo?

Chiudiamo questo articolo, ritornando sul dibattito interno all’area italiana di ispirazione marxista, per chiarire una certa confusione che permane in determinati ambienti sul senso della contestazione alla guerra imperialista e all’imperialismo in quanto tale.

Spezzone del Fronte Comunista e del Fronte della Gioventù Comunista alla manifestazione del 21 giugno

Un esempio tra i più recenti sta nella cornice della doppia manifestazione che il 21 giugno si è tenuta a Roma contro guerra e riarmo, con il blocco Unione Sindacale di Base – Potere al Popolo – Rete dei Comunisti che ha deciso di organizzare un corteo separato da quello di massa dell’associazionismo di sinistra e le organizzazioni marxiste-leniniste Fronte della Gioventù Comunista e Fronte Comunista che hanno scelto, per motivi precisi, di marciare in quest’ultimo.

In questo contesto, segnaliamo che alcune testate legate al primo blocco, come Contropiano, hanno giustificato la decisione di costruire una piazza separata con l’impossibilità di convergere su dei punti fondamentali della piattaforma: «Il corteo che partirà da piazza Vittorio ha tra i suoi obiettivi la denuncia e lo sganciamento dalla NATO. Ma se alla vigilia di una manifestazione indetta proprio contro il vertice della NATO, viene suggerito di non porre la questione della NATO come discriminante perché è un tema “divisivo”, è evidente che di presupposti e punti di convergenza ne saltano parecchi».

Sebbene sia comprensibile contestare la piattaforma di una manifestazione per l’assenza di una rivendicazione fondamentale come l’uscita dalla NATO – il che non avrebbe precluso, tuttavia, l’organizzazione di uno spezzone di classe con questa rivendicazione, che in quel contesto avrebbe persino avuto la possibilità di essere maggioritario – va sottolineato, innanzitutto, che imperniare tutta l’enfasi del “distinguo” sulla questione dell’opposizione alla NATO non assicura di per sé il propagandare una posizione avanzata, legata agli interessi della classe operaia, con una distinzione e contrapposizione assoluta rispetto ad una posizione arretrata. Questa (giusta) rivendicazione è condivisa, infatti, anche da frazioni borghesi che mettono in discussione il ruolo della NATO, ad esempio, nell’UE, ponendo come contraltare alla NATO una maggiore autonomia militare europea a servizio degli interessi dei propri monopoli. Ma, soprattutto, porre la questione dell’uscita dalla NATO ha senso, dal punto di vista storico e politico, se si conduce una simile battaglia contro tutte le alleanze imperialiste (e i capitali legate ad esse) che contribuiscono a inasprire lo scontro inter-imperialista nel mondo e a incrementare il livello dello sfruttamento dei lavoratori e delle risorse – non soltanto contro l’alleanza attualmente più aggressiva dal punto di vista militare.

Da questo punto di vista, emerge un problema di comprensione circa cosa ci sia veramente in gioco rispetto al confronto e al dibattito politico interno all’area comunista e conflittuale. Che la posizione dei partiti della sinistra “moderata” o borghese non sia riformabile rispetto al pilastro dell’adesione alla NATO è un dato, e la scelta di partecipare alle piazze dove queste organizzazioni sono fisicamente presenti non può avere certo questo obiettivo. Come non può avere questo obiettivo, d’altronde, neppure la scelta di alcune organizzazioni, fatta all’ultima tornata delle elezioni europee, di far convergere i loro voti su sigle come AVS. Più realistico e utile sarebbe, invece, un confronto franco e schietto con le realtà della sinistra di classe su cosa significhi “antimperialismo”. In effetti, mentre una posizione leninista, condivisa da specifiche organizzazioni, non si fa illusioni su presunti effetti progressisti o equilibratori di un mondo con diverse grande potenze capitaliste (effetti peraltro smentiti drammaticamente dall’attualità), i promotori del corteo “separato” da anni tessono le lodi e i pregi di modelli socio economici che sarebbero “alternativi” a quello a trazione USA-UE. Un chiarimento su che cosa significhi, dunque, “lottare contro l’imperialismo”, se voglia dire lottare contro lo sfruttamento e la sottrazione di risorse ai popoli in generale o solo quando lo fa la parte del mondo capitalista attualmente ancora più forte dal punto di vista militare, sarebbe utile nell’ottica della costruzione di un fronte antimperialista e anticapitalista unitario. E sarebbe utile al fine di una costruzione di momenti unitari di mobilitazione futura che non si riducano ad appelli unilaterali. In questa rivista abbiamo, d’altronde, più volte evidenziato come chi combatte un solo imperialismo si rende complice degli altri e come il criterio per definire un Paese “imperialista” è qualitativo, non quantitativo (ad esempio, basato sulla grandezza del PIL) e non a seconda della tendenza ad aggredire militarmente più territori degli altri.

La necessità di promuovere all’interno di manifestazioni e contesti di carattere politico un grande blocco sociale che possa essere realmente alternativo alle forze del centro-sinistra e della sinistra opportunista, in cui far confluire chi non si sente rappresentato dalle opzioni politiche borghesi in campo, rimane oggi un’esigenza strategica di carattere prioritario e assolutamente non incompatibile (anzi, funzionale) rispetto a quella di smarcarsi dall’opportunismo di ogni tipo.

Tagavscentro-sinistraguerraM5Sopportunismopdsinistra europeasinistra radicalesocialdemocrazia
Articolo precedente

Aree interne: dal governo Meloni l’ennesimo schiaffo ...

Articolo successivo

Il premio a Salvini e il carattere ...

16
Condiviso
  • 16
  • +
  • 0
  • 0
  • 0
  • 0

Domenico Cortese

Domenico Cortese, nato a Tropea nel 1987, dottore di ricerca in Filosofia e Storia. Gestisce il blog Il Capitale Asociale su FB e IG, è membro del comitato centrale del Fronte Comunista, in cui milita dalla sua fondazione. Collabora con L'Ordine Nuovo su argomenti di economia e attualità.

Articoli correlati Altri articoli dell'autore

  • La corsa al riarmo e la conversione alla guerra della produzione: intervista ai lavoratori della Leonardo promotori della petizione “Non in mio nome, non col mio lavoro”
    CopertinaRassegna operaia

    La corsa al riarmo e la conversione alla guerra della produzione: intervista ai lavoratori della Leonardo promotori della petizione “Non ...

    10/11/2025
    Di Redazione
  • Vita politica internazionale – Trentanovesimo numero
    Vita politica internazionale

    Vita politica internazionale – Trentanovesimo numero

    03/08/2025
    Di Redazione
  • Le pensioni e la guerra: smontare le argomentazioni nell'era dell'austerità selettiva
    Politica

    Le pensioni e la guerra: smontare le argomentazioni nell’era dell’austerità selettiva

    19/04/2025
    Di Redazione
  • Notizie dal mondo

    Sulla cosiddetta “Piattaforma Mondiale Antimperialista” e la sua posizione dannosa e fuorviante

    18/04/2023
    Di Redazione
  • Meloni Conte Salvini
    Politica

    MES: gli interessi dei padroni attraversano i partiti

    12/04/2020
    Di Redazione
  • L’“Europa di pace” trascina un mondo sempre più armato verso la guerra
    Imperialismo

    L’“Europa di pace” trascina un mondo sempre più armato verso la guerra

    08/05/2025
    Di Lorenzo Vagni

Ti potrebbe interessare

  • Lenin150

    Tre letture su Lenin

  • Rassegna operaia

    Tortona: la lotta dei lavoratori Arcaplanet e la risposta padronale

  • Il Buco
    Film e TV

    Ma a voi veramente è piaciuto Il buco?

Leggi anche…

Lavoratrice Smart Working

Smart working: sfruttamento e riduzione dei diritti

19/04/2020 | By Redazione
Coronavirus

Crisi del neoliberismo e della globalizzazione come manifestazione della crisi del capitalismo. I cambiamenti epocali del post pandemia

17/11/2020 | By Domenico Moro

Guerra di classe

19/09/2021 | By Redazione
Partito Comunista del Venezuela

Intervento del Segretario generale del PC del Venezuela alla teleconferenza della Rivista Comunista Internazionale

26/10/2020 | By Redazione

seguici:

  Facebook  Instagram  Twitter

contattaci:

  Contattaci
Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia. Possono dunque esserne ripresi altrove i contenuti: basta citarne la fonte. "L'Ordine Nuovo" è un sito web di informazione indipendente e non rappresenta una testata giornalistica ai sensi della legge 62/2001. Qualora le notizie o le immagini pubblicate violassero eventuali diritti d’autore, basta che ci scriviate e saranno immediatamente rimosse.