Da anni ormai si sente parlare di “aree interne” in relazione ad alcune zone del territorio italiano: con questo termine ci si riferisce, particolarmente, a territori remoti rispetto ai principali centri urbani e soggetti a fenomeni quali declino demografico, mancanza di servizi di base e il cui sviluppo economico, culturale e sociale risulta compromesso da fenomeni di deindustrializzazione ed emigrazione che sono avvenuti nei decenni.
Spesso la politica borghese ha affrontato il tema della gestione di queste aree proponendo, il più delle volte in maniera inefficace, puramente formale o ipocrita, progetti di tutela e ripresa per i comuni che vi rientrano; tuttavia, oggi il governo Meloni torna a parlarne, sostenendo nei fatti il definitivo affossamento delle aree interne, a netto discapito dei loro residenti.
Si affronterà, di seguito, il tema delle aree interne, analizzando alcune delle conseguenze delle politiche dei diversi governi sulla vita delle popolazioni che vi risiedono.
Cos’è un’area interna

Nella definizione di area interna rientrano perlopiù zone prevalentemente montane, rurali e le isole minori
Per definire un’area interna secondo i criteri ufficiali, bisogna risalire alla “Strategia Nazionale per le Aree Interne” (SNAI)[1], una politica ideata tra il 2012 e il 2013 dall’allora governo Monti, messa in atto dal successivo governo Letta e promossa dall’Agenzia per la Coesione Territoriale. Questo documento ha introdotto una classificazione dei comuni italiani sulla base della distanza dai servizi pubblici considerati essenziali, suggerendo una serie di azioni e politiche attive per contrastare, o quanto meno mitigare, i fenomeni di declino demografico e marginalizzazione territoriale.
In particolare, il criterio di individuazione delle aree interne parte dalla definizione di una serie di comuni indicati come “centri di offerta di servizi”[2], il cui status è riservato a quei comuni, o aggregati di comuni confinanti, in grado di offrire simultaneamente:
- tutta l’offerta scolastica secondaria;
- almeno un ospedale sede di DEA di primo livello[3];
- almeno una stazione ferroviaria di categoria Platinum, Gold o Silver[4].
Una volta definiti questi poli urbani (o intercomunali) sulla base della capacità di offerta dei servizi essenziali, i restanti comuni vengono classificati in 4 fasce, in base alle distanze dai poli misurate in tempi di percorrenza: aree periurbane o di cintura (tempi di percorrenza per il più vicino polo inferiori ai 20 minuti), aree intermedie (tra 20 e 40 minuti), aree periferiche (tra 40 e 75 minuti) e aree ultra-periferiche (oltre 75 minuti).
Vengono definiti come aree interne quei comuni la cui distanza dai poli è superiore ai 20 minuti, ossia le ultime tre categorie elencate poc’anzi.

Uno schema riepilogativo della suddivisione dei comuni italiani
Alla luce della nomenclatura così introdotta, risulta che nelle aree interne risieda una parte non trascurabile della popolazione italiana (22%), ricada la maggior parte della superficie del territorio nazionale (60%) e afferisca oltre la metà dei comuni (52%)[1].
Di seguito una tabella sintetica della classificazione dei comuni italiani e una mappa delle aree interne, da cui si evince come a questa categoria appartengano perlopiù zone prevalentemente montane, rurali e le isole minori:
| Classificazione | N. | % | Popolazione | % | Km2 | % |
| Polo | 217 | 2,7 | 20.983.786 | 35,3 | 28.948 | 9,6 |
| Polo intercomunale | 122 | 1,5 | 2.986.161 | 5,0 | 8.606 | 2,8 |
| Cintura | 3.568 | 44,1 | 22.135.047 | 37,2 | 83.982 | 27,8 |
| Intermedio | 2.360 | 29,2 | 8.832.422 | 14,9 | 88.187 | 29,2 |
| Periferico | 1.522 | 18,8 | 3.812.271 | 6,4 | 72.829 | 24,1 |
| Ultra-periferico | 303 | 3,7 | 684.057 | 1,2 | 19.521 | 6,5 |
| Centri | 3.907 | 48,3 | 46.104.994 | 77,6 | 121.535 | 40,2 |
| Aree Interne | 5.732 | 51,7 | 13.328.750 | 22,4 | 180.538 | 59,8 |
| Totale | 8.092 | 100,0 | 59.433.744 | 100,0 | 302.073 | 100,0 |

Mappa delle aree interne. Dati ISTAT 2018
Gli effetti delle politiche dei governi

Fabrizio Barca, Ministro per la coesione territoriale del governo Monti, fu l’ideatore della SNAI
Come detto, la SNAI è stata elaborata tra il 2012 e il 2013 da Fabrizio Barca, Ministro per la coesione territoriale del governo Monti, e inserita nell’Accordo di Partenariato 2014‑2020 dal governo Letta a guida PD con l’obiettivo di contrastare la marginalizzazione socio-economica di quei territori. Questa politica dichiarava quale scopo quello di intervenire nei territori più marginali cercando di migliorare servizi come sanità, scuola e trasporti, spesso carenti. Intendeva anche promuovere forme di sviluppo economico locale e coinvolgere le comunità nei progetti, ma con risultati disomogenei. Il tutto veniva finanziato con fondi pubblici, europei e nazionali, con l’obiettivo dichiarato di contrastare lo spopolamento, anche se l’efficacia concreta è stata spesso limitata.
Da allora, infatti, l’attuazione di queste politiche ha dato risultati tutt’altro che positivi: dati ISTAT del 2025 dimostrano come nell’arco di 10 anni le aree interne hanno perso quasi 700mila abitanti. Se infatti si era assistito a una crescita della popolazione tra il 2002 e il 2014 (da 13,621 milioni di residenti a 14,019 milioni) complice il trend demografico complessivo del paese, nel 2024 la popolazione era scesa a 13,325 milioni di abitanti. Tanto nella fase di aumento demografico in Italia quanto in quella di decremento, le aree interne sono state svantaggiate rispetto ai centri urbani: nel primo caso la crescita della popolazione è stata nettamente inferiore (+2,2% contro +6,8%), nel secondo la diminuzione è stata maggiore (-5% contro -1,4%).
Tra i fenomeni che hanno determinato questi risultati negativi vi sono l’invecchiamento della popolazione, la riduzione della natalità e l’aumento dell’emigrazione dei giovani laureati. Nelle aree interne si rileva infatti maggiore emigrazione verso i comuni più grandi e verso l’estero, non compensata da flussi in entrata altrettanto consistenti[5].
Entro il prossimo decennio l’82% dei comuni di questi territori sarà catalogato in “declino demografico”, con punte che arriveranno al 92,6% nel Mezzogiorno[6]. Si prevede infatti che la diminuzione della popolazione in Italia colpirà con maggior forza le aree interne: se le stime lasciano presagire che nel 2043 la popolazione italiana scenderà a 56,5 milioni di abitanti, i comuni delle aree interne subiranno un calo demografico dell’8%, molto maggiore del 3% che riguarderà i centri urbani. È proprio in virtù di questa tendenza che nel 2023 in 341 comuni italiani non è nato nessuno[7].
Alle misure previste dai governi di centro-sinistra, che per la stessa natura antipopolare dei partiti che ne facevano parte non potevano di certo essere risolutive o favorevoli alla gran parte della popolazione, si sono aggiunte le inefficienze: nel 2020, a 6 anni dall’avvio dei programmi governativi sulle aree interne, solo il 19% dei progetti volti al rilancio di quei territori era stato portato a compimento, mentre la restante parte risultava in corso o non avviata[8].

Il governo Meloni parla di «un percorso di spopolamento irreversibile», certificando l’abbandono da parte delle istituzioni delle aree interne e della loro popolazione
Se quelle dei governi precedenti sulle aree interne sono state prese di posizione vuote, inefficienti e propagandistiche, il governo Meloni ha gettato la maschera sulle strategie che l’attuale esecutivo intende attuare per questi territori. In particolare, lo scorso marzo il governo ha presentato il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne (PSNAI) 2021-2027[9], un documento ministeriale pubblicato quasi in sordina e approvato dalla cabina di regia il successivo 9 aprile, che certifica l’abbandono sempre più esplicito delle aree interne.
Infatti, a pagina 45 del documento, nell’“obiettivo 4” si parla di «un percorso di spopolamento irreversibile», affermando che «un numero non trascurabile di Aree interne si trova già con una struttura demografica compromessa (popolazione di piccole dimensioni, in forte declino, con accentuato squilibrio nel rapporto tra vecchie e nuove generazioni) oltre che con basse prospettive di sviluppo economico e deboli condizioni di attrattività. Queste Aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita».
Queste dichiarazioni non si limitano a costituire una piena accettazione di un percorso di sviluppo socio-economico che negli ultimi decenni ha compromesso le condizioni di vita e i diritti della popolazione, costringendola ad abbandonare quei territori, ma svelano anche gli interessi economici che il governo Meloni intende favorire, privilegiando i monopoli e la concentrazione del capitale (che per lo più si attestano nelle grandi città) anche a costo di abbandonare quei settori di piccola borghesia che rappresentano le attività economiche dislocate nelle aree interne.
Ulteriori ripercussioni delle politiche di abbandono
Si è parlato finora di alcune delle ripercussioni sulla popolazione delle politiche di abbandono delle aree interne, tra cui la privazione di servizi essenziali a una vita dignitosa (difficoltà di accesso ai servizi sanitari, diminuzione dei residenti giovani e penalizzazione delle famiglie per via della carenza di nidi e scuole) e il conseguente obbligo di emigrare all’interno del Paese o all’estero.
A questi si aggiunge però una correlazione preoccupante tra la gestione delle aree interne e l’aumento della vulnerabilità di questi territori agli eventi atmosferici estremi, catastrofi naturali e altri fenomeni connessi al cambiamento climatico o all’abbandono del territorio. Alcuni studi dimostrano come lo spopolamento e l’abbandono dell’agricoltura nelle aree interne abbiano accentuato gli effetti del cambiamento climatico: in particolare, l’assenza di manutenzione dei terreni e delle reti idrauliche minori riduce la capacità di difesa contro piogge intensissime, mentre foreste non gestite possono aumentare il rischio di frane e trasporto solido (il movimento di materiali come terra, fango, sabbia, ghiaia e detriti rocciosi trascinati dall’acqua) nei corsi d’acqua. L’abbandono del territorio causato dallo spopolamento delle aree interne non solo espone pertanto ai maggiori rischi i loro residenti, ma è anche una minaccia per gli insediamenti e le persone a valle e sulle coste[10].

La gestione successiva al terremoto del Centro Italia dimostra come le politiche dei governi incidano direttamente sullo spopolamento dei territori
Bisogna inoltre inquadrare le aree interne nel complessivo definanziamento della sicurezza e della gestione del territorio da parte delle istituzioni italiane: per mettere in sicurezza l’intero territorio servirebbero oltre 26 miliardi €, mentre ne sono stati spesi circa 6 negli ultimi 20 anni[11]. Come diretta conseguenza, i danni da dissesto idrogeologico in Italia sono triplicati dal 2010 a oggi[12]. Ciò, unito al fatto che aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata si concentrano prevalentemente nelle zone montane e collinari dell’Appennino e delle Alpi[13] (nelle quali ricadono molte delle aree interne), fa sì che i tagli alla manutenzione del territorio mettano particolarmente a rischio i residenti delle aree interne.
Se da un lato l’abbandono delle aree interne da parte delle istituzioni fa sì che non venga garantita la prevenzione di eventi facilmente prevedibili, dall’altra anche l’impegno delle amministrazioni nella ripresa successiva a catastrofi naturali o altre emergenze risulta del tutto insufficiente: ne è un esempio l’inadeguato processo di ricostruzione delle zone (per lo più aree interne) colpite dal terremoto del Centro Italia del 2016/2017, contraddistinto da inefficienze e ritardi a più riprese denunciati[14][15][16], la cui conseguenza è che a otto anni dal sisma circa la metà dei 41mila sfollati risiedeva ancora in “soluzioni abitative di emergenza”, ossia in edifici provvisori e precari in attesa di poter tornare alle proprie abitazioni[17]. Secondo uno studio, lo stesso terremoto ha «significativamente accentuato la riduzione della popolazione dei comuni colpiti», con molte famiglie che dopo aver perso la propria casa si sono trasferite sulla costa con l’intenzione di non tornare[18].
Conclusioni
L’ammissione di noncuranza del governo Meloni circa le aree interne, che ben si presta a incarnare una deresponsabilizzazione per il mancato finanziamento di ogni genere di servizio essenziale che dovrebbe essere assicurato alla loro popolazione, rappresentata l’ennesimo schiaffo a una parte non trascurabile della popolazione italiana e a quei territori che da decenni di tagli non vengono adeguatamente curati, mentre sempre più fondi vanno alle imprese o vengono investiti nelle spese militari.
Si tratta di una politica asservita agli interessi di profitto e lontana da quelli della popolazione. Lungi da garantire a gran parte del popolo il diritto a non emigrare e a restare nella propria terra vivendo una vita dignitosa, le politiche dei governi italiani hanno certificato, al contrario, l’obbligo materiale all’emigrazione come effetto dell’iniquità del capitalismo, il quale non è mai stato in grado di garantire uno sviluppo equo del territorio nazionale.

Tra le aree interne vi sono territori che una gestione razionale e pianificata potrebbe valorizzare, ma che il capitalismo marginalizza
L’esistenza stessa di “aree interne”, ossia porzioni svantaggiate (e riconosciute come tali dallo Stato) del territorio nazionale, sono una manifestazione dello sviluppo economico irrazionale tipico del sistema capitalistico: molti dei comuni più piccoli hanno in realtà una storia secolare, e in molti casi il patrimonio culturale, artistico ed enogastronomico non viene valorizzato, quando invece potrebbe rappresentare una delle direttrici lungo le quali rilanciare i territori. Ne è un chiaro esempio il fatto che il 39,4 % delle strutture culturali in Italia (musei, monumenti, aree archeologiche) si trova nelle aree interne, ma i visitatori rappresentano solo il 12,8 % del totale nazionale, oltre al fatto che la fruizione media per sede è di circa 8mila visitatori annui, contro i 25mila a livello nazionale[19]. Spesso il patrimonio presente in questi territori, oltre ad essere sottoutilizzato, giace in stato di abbandono, con il rischio di degradarsi con il prolungarsi di questa condizione, oltre a essere esposto al rischio della perdita della memoria stessa del bene[20].
Esiste inoltre una chiara evidenza che le aree d’Italia classificate come interne (montane, collinari, geologicamente ricche) ospitano potenziali giacimenti di materie prime e minerali strategici non sfruttati, oltre a essere ricche di biodiversità, boschi, risorse idriche, terre agricole, potenziale energetico e patrimonio naturale[21][22][23]. Dando priorità a logiche di profitto nel breve periodo, che difficilmente sono applicabili in aree che necessitano di investimenti infrastrutturali e sociali di lungo periodo, questo sistema e le politiche attuate dai governi italiani non sono in grado di valorizzare queste zone del territorio nazionale.
A uno sviluppo insostenibile e a una localizzazione disuguale e irrazionale della produzione tipica del capitalismo, è necessario contrapporre una visione di società con un modello economico differente, fondato sulla pianificazione funzionale allo sviluppo di tutti i territori e le categorie sociali e non solo di quelli che offrono più margine di profitto. Una visione di società a cui appartengano uguaglianza territoriale, politiche che garantiscano a ciascuno il diritto al lavoro nel proprio luogo di origine, il pieno sviluppo dei territori e la gestione razionale e socialmente determinata delle risorse. Ne sono un esempio i principî che hanno orientato nei decenni la produzione socialista, come in Unione Sovietica, dove la localizzazione dell’industria avveniva in modo razionale e pianificato allo scopo di aumentare la produttività del lavoro sociale, accrescere la forza dello Stato socialista e innalzare il tenore di vita dei lavoratori.
Tra questi principî:
- la localizzazione della produzione il più vicino possibile alle fonti di materie prime e alle regioni che consumano la produzione industriale e agricola, garantendo un migliore utilizzo delle risorse naturali, l’eliminazione di tragitti irrazionali nel loro transito e un notevole risparmio di lavoro per la società nel suo complesso;
- la divisione territoriale pianificata del lavoro tra regioni economiche, combinata con uno sviluppo economico complesso all’interno di queste regioni, tenendo conto delle condizioni naturali di ciascuna regione e dell’opportunità economica di produrre particolari beni industriali e prodotti agricoli, riducendo i trasporti anormalmente lunghi e irrazionali e promuovendo l’uso delle risorse locali di materie prime;
- la localizzazione pianificata dell’industria in tutto il territorio del Paese, assicurando la formazione di nuove città e centri industriali in distretti agricoli un tempo arretrati e avvicinando così agricoltura e industria, contribuendo ad abolire la distinzione essenziale tra città e campagna;
- l’eliminazione della reale disuguaglianza economica dei popoli e il rapido sviluppo dell’economia delle regioni nazionali un tempo arretrate.
Solo la pianificazione economica centralizzata in una società socialista può, anche attraverso questi esempi di gestione, coniugare il superamento della diseguale localizzazione della produzione, il pieno sviluppo del territorio nazionale e la garanzia dei diritti a prescindere dalle differenze territoriali. Anche il tema della gestione dei nostri territori dimostra la necessità di una società nuova, che oggi dobbiamo conquistare per superare un sistema che non è più in grado di garantire alla grande maggioranza della popolazione una vita dignitosa, uno sviluppo sostenibile e un futuro di benessere.
Note
[1] Strategia Nazionale Aree Interne, Agenziacoesione.gov.it.
[2] Le aree interne: di quale territori parliamo? Nota esplicativa sul metodo di classificazione delle aree, Agenziacoesione.gov.it, gennaio 2021.
[3] Un DEA (Dipartimento di Emergenza e Accettazione) è una struttura ospedaliera deputata alla gestione delle emergenze sanitarie, organizzata per garantire il primo intervento, la diagnosi e il trattamento dei pazienti in condizioni critiche o urgenti. In particolare, un ospedale sede DEA di primo livello rappresenta un’aggregazione funzionale di unità operative che, oltre alle prestazioni fornite dal Pronto Soccorso, garantisce le funzioni di osservazione, breve degenza e di rianimazione e realizza interventi diagnostico-terapeutici di medicina generale, chirurgia generale, ortopedia e traumatologia, terapia intensiva di cardiologia. Inoltre assicura le prestazioni di laboratorio di analisi chimico-cliniche e microbiologiche, di diagnostica per immagini, e trasfusionali.
[4] In Italia, le stazioni ferroviarie sono classificate da RFI in categorie in base a flussi di passeggeri, servizi offerti e rilevanza strategica:
- Platinum: le principali stazioni italiane, con altissimi flussi (oltre 6 milioni di passeggeri/anno), numerosi servizi commerciali e nodo centrale per l’Alta Velocità e altre linee;
- Gold: stazioni con traffico elevato (1–6 milioni di passeggeri/anno), importante ruolo territoriale e buoni servizi;
- Silver: stazioni di medio traffico, funzione di raccordo locale o regionale, con servizi essenziali.
Esistono anche le categorie Bronze e Basic per le stazioni minori.
[5] Istat. Le aree interne si spopolano e la gente va a vivere nelle grandi città, Avvenire.it, 30 luglio 2024.
[6] L’Italia delle aree interne sta diventando un deserto: «Serve una strategia», Avvenire.it, 12 luglio 2025.
[7] Il Piano per le aree interne: i piccoli comuni rischiano di restare ai margini, Thedotcultura.it, 14 luglio 2025.
[8] Il flop del piano “aree interne”: completati il 19% dei progetti, Officinadeisaperi.it, 19 agosto 2024.
[9] Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027 (PSNAI) e Allegati, Politichecoesione.governo.it.
[10] L’abbandono delle aree interne sta peggiorando l’impatto della crisi climatica in Italia, Greenreport.it, 14 febbraio 2025.
[11] Dissesto idrogeologico: servono 26 mld di euro per tutti gli interventi necessari, Ingenio-web.it, 29 maggio 2023.
[12] Rischio idrogeologico in Italia, senza prevenzione costi triplicati in 13 anni, Asvis.it, 21 dicembre 2023.
[13] Dissesto idrogeologico in Italia: piaga causata dall’uomo, Ilgiornaledellambiente.it, 7 aprile 2023.
[14] Terremoto Centro Italia, ricostruito solo il 4% degli edifici distrutti: “Normalità nel 2041”. Il dossier: “Contributi insufficienti e insicurezza”, Ilfattoquotidiano.it, 24 agosto 2019.
[15] Terremoto del Centro Italia, Codacons: promesse tradite. Troppi ritardi nella ricostruzione, Helpconsumatori.it, 24 agosto 2022.
[16] Cronaca del terremoto infinito e della “catastrofe perfetta” nel Centro Italia. Dopo 8 anni di macerie e spopolamento le sfide della ricostruzione nell’Italia smemorata che rimuove il rischio sismico, Greenreport.it, 27 agosto 2024.
[17] Quelle casette provvisorie, otto anni dopo il terremoto, Vita.it, 22 agosto 2024.
[18] Sisma centro Italia, sette anni dopo ancora 30mila persone vivono in situazioni di emergenza. E ora si teme lo spopolamento: mancano oltre 20mila domande di contributo alla ricostruzione, Ilfattoquotidiano.it, 24 agosto 2023.
[19] Il patrimonio culturale nelle aree interne – Anno 2022, Istat.it.
[20] La Strategia Nazionale per le aree Interne: sperimentare nuovi strumenti e nuove politiche per il patrimonio diffuso, Ilgiornaledellefondazioni.com, 15 aprile 2015.
[21] Nel sottosuolo italiano 16 materie prime “critiche”. Un miliardo per estrarle, Ilgiornale.it, 10 marzo 2025.
[22] Contributi per la tutela della biodiversità delle zone umide, Ispraambiente.gov.it.
[23] Approvato il Programma nazionale di esplorazione mineraria. Al via le indagini in tutta Italia, Ispraambiente.gov.it.








