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Home›Capitale/lavoro›La comunicazione ai tempi del covid-19

La comunicazione ai tempi del covid-19

Di Redazione
10/05/2020
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Infermiera

La penna ferisce più della spada. Il capitale lo sa bene e non manca mai di ricorrere a quest’arma per affermare la sua egemonia. I mass media sono da sempre uno strumento di propaganda fortissimo e in questi giorni di emergenza sanitaria è possibile riconoscere differenti indirizzi comunicativi. A seconda del periodo che prendiamo in esame possiamo osservare come gli interessi in campo, primi fra tutti quelli delle imprese, abbiano modificato nel tempo la comunicazione relativa all’emergenza.

Possiamo individuare due gestioni comunicative differenti che ricalcano grosso modo le due fasi di gestione del virus: il periodo che va dal 31 gennaio al 30 aprile 2020, e dal primo maggio in poi. Archi temporali ben definiti, che vanno dalla dichiarazione dello stato d’emergenza (31 gennaio), all’ordine perentorio e non più procrastinabile di riaprire il più possibile per salvaguardare il capitale (la cosiddetta Fase 2).

Nessuno qui critica la necessità e l’importanza rivestita da una corretta informazione riguardante l’emergenza sanitaria. È interessante, però, notare il cambiamento di indirizzi generali che si sono susseguiti negli scorsi mesi.

Fase 1: si salvi chi può

La propaganda sui mass media tradizionali e sugli ormai onnipresenti social network è stata martellante in questa fase. Tra i media tradizionali a mietere più vittime è la televisione, con una sovraesposizione dell’argomento virus letteralmente devastante. Basti pensare che per tutto il mese di febbraio nei telegiornali RAI l’argomento virus è stato trattato per un totale di 43 ore su 148 di programmazione dedicata (circa il 29%), mentre nel periodo di riferimento dal 21 al 31 marzo le ore dedicate al corona virus sono schizzate a 105 su 130 (circa l’80%) [dati AGCOM: https://www.agcom.it/dati-monitoraggio-covid-19]. Nelle reti private si segue lo stesso trend.

Le cifre sono impietose, un vero e proprio bombardamento mediatico. La centralità dell’argomento è ovviamente determinata dalla prima fase di diffusione del virus, dalle preoccupazioni da esso suscitate e da una richiesta quasi morbosa di informazioni a riguardo. Ma la comunicazione televisiva è andata ben oltre l’esigenza di tenere informata la popolazione. Il bombardamento mediatico ha agito da boomerang generando nuove paure, una richiesta patologica di aggiornamenti, e ha contribuito in maniera preponderante alla raffigurazione che ognuno di noi ha avuto della pandemia.

A rincarare la dose, dove non riescono i telegiornali, ci pensano i programmi di intrattenimento. Prendiamo ad esempio La Vita in Diretta, trasmissione pomeridiana di Rai Uno. Seguendo il programma si nota che è tutto un susseguirsi di collegamenti con personaggi più o meno famosi che ci aprono le porte delle loro case e ci mostrano il loro essere in quarantena. Assistiamo a tristi scene con la vip di turno che spadella frittate o a improbabili tutorial su come giocare coi nostri figli. Tutto questo è sempre condito dalle trite e ritrite raccomandazioni sullo stare a casa, indossare mascherine e lavarci le mani. Per non parlare dei collegamenti canonici dalle RSA, dagli ospedali, dalla Protezione Civile. Guardando alle reti private, restano indimenticabili le preghiere di Barbara D’Urso e Salvini.

Anche i social network hanno giocato il loro ruolo. Si sono creati hashtag appositi, i disegni con gli arcobaleni che campeggiano ad ogni angolo delle strade e delle porte di casa sono stati rilanciate fortemente sul web contribuendo a costruire un sentimento di unità nazionale, rilanciando l’idea del trovarsi tutti sulla stessa barca, promuovendo l’esposizione delle bandiere italiane dai balconi e l’inno di Mameli alle finestre nei flash mob.

Nel frattempo, assistevamo all’elevazione al rango di eroi dei lavoratori che non si sentono assolutamente tali: medici, infermieri, operatori sanitari, ma anche tutti quelli dei servizi essenziali che non hanno mai smesso di andare in fabbrica.

La retorica degli “eroi” ha nascosto spesso delle condizioni di sicurezza inadeguate che mettevano seriamente a rischio la salute di questi lavoratori che rispedirebbero volentieri il complimento al mittente in cambio di una condizione che gli permettesse di continuare a svolgere il proprio lavoro in sicurezza.

Persino la pubblicità ha seguito scrupolosamente questa narrazione martellante. Ad ogni blocco pubblicitario si avvicendano spot su come donare alla Protezione Civile, su come starnutire in pubblico spiegato da Amadeus. Informazioni importanti che possono fare la differenza ma che hanno contribuito a generare questo sentimento di insicurezza e allarme che ha caratterizzato tutta la prima fase di gestione.

Per accreditare queste fonti di informazione abbiamo addirittura assistito ad uno spot Mediaset contro le fake news. Proprio Mediaset che vive e prospera sulle paure dei telespettatori con i programmi di Del Debbio e Giordano, ci esorta a scegliere di credere agli editori “seri”.

Fase 2: il padrone chiama

Il passaggio alla cosiddetta Fase 2 è stato preceduto da settimane di pressing intenso da parte di Confindustria. Non passava giorno che un suo qualsiasi esponente, sia di livello nazionale che locale, non rilasciasse dichiarazioni sulla necessità di ripartire, di sbloccare, di fatturare. Se gli industriali chiamano, la politica non può fare a meno di rispondere. Si è scatenato quindi un turbinio di dichiarazioni ed interventi in parlamento, non ultimo lo sproloquio renziano che sosteneva, impudentemente, che anche i morti di Bergamo se potessero parlare ci spronerebbero alla riapertura.

A questo è seguito un cambio sostanziale nella narrazione dell’emergenza e di conseguenza nella percezione del pericolo da parte della popolazione, un passaggio essenziale per giustificare la riapertura. Vengono, così, modificate le scelte comunicative ufficiali del governo e si allenta il bombardamento mediatico nelle televisioni pubbliche e private.

Il cambio di termini è fondamentale. Bisogna lasciarsi alle spalle i pensieri grigi di mascherine, guanti ed eroi per fare spazio alla positività. Si rimuove la conferenza stampa della Protezione Civile, permettendo alla programmazione televisiva pomeridiana di dare più spazio a “storie di ripartenza”, storie di speranza. I pubblicitari in questo senso sono maestri della comunicazione. Assistiamo così ad uno spot Rai che invita al rilancio economico, al sostegno delle grandi marche che hanno continuato a fare promozione anche in tempi di crisi. (spot facilmente reperibile al seguente link: https://youtu.be/aMP9S0QSO0Q )

Nello spot sentiamo: ‹‹Tutte le marche che sono sempre state con noi, sono al nostro fianco anche oggi. Vorremmo nominarle una ad una ma preferiamo ringraziarle tutte insieme per essere il motore dell’Italia che riparte››.

La scelta delle parole usate in questo spot non è casuale, risponde a precise esigenze: sotto l’atmosfera da “vogliamoci bene e ripartiamo insieme” c’è un messaggio e c’è un destinatario chiaro. Il tempo degli “eroi” è finito, siamo alla Fase 2. Le grandi marche acquisiscono così un aspetto famigliare, i prodotti che entrano tutti i giorni nelle nostre case attraverso la pubblicità combattono con noi contro questo virus con l’obiettivo comune di far ripartire il Paese. Gli sforzi sono comuni.

Il sottinteso di questa comunicazione è che ognuno deve fare la propria parte. A noi, ovviamente, è assegnata quella del consumatore.

Alle marche non nominate nello spot – non ce n’è bisogno perché qui non si cerca di spingere una o l’altra azienda ma gli interessi di un’intera classe – corrispondono aziende che devono riprendere la produzione a tutti i costi. La necessità oggettiva di rilanciare i profitti privati agisce quindi in maniera diretta e indiretta anche sulle scelte comunicative andando ad influenzare la percezione di tutti noi. Nella tenuta comunicativa della fase 2 si punta il dito contro gli “irresponsabili” preparando il capro espiatorio del possibile fallimento della riapertura e della possibilità che i contagi tornino a salire. Si tace quasi completamente, invece, dei rischi di contagio più rilevanti in cui si incorre sui luoghi di lavoro. In questo contesto generale i lavoratori, da “eroi” potrebbero trasformarsi velocemente in traditori della patria se osassero rallentare la ripartenza dell’Italia, chiedendo, magari, dispositivi di protezione personale e la salvaguardia del proprio posto di lavoro. Contro questa impostazione comunicativa dovranno scontrarsi le lotte che sorgeranno nella crisi economica del post-covid19.

Alessio La China

Tagcapitalismocomunicazioneconfindustriacovid-19fase 1Fase 2impreselavoratorimass mediapubblicità
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