Pierpaolo Capovilla è un cantautore dalla carriera ormai quasi trentennale, noto ai più per essere stato il fondatore degli One Dimensional Man e de Il Teatro degli Orrori. Il suo percorso artistico però è stato caratterizzato da forti prese di posizione politiche. Comunista da sempre, Pierpaolo non ha mai avuto timori nello schierarsi e nell’affermare idee scomode e in rottura con la cultura e l’ideologia mainstream.
In diverse occasioni, Capovilla ha preso parte a feste popolari organizzate dal Fronte Comunista e dal Fronte della Gioventù Comunista. La festa Avanguardia, svolta anche quest’anno a Roma, nella borgata di Tiburtino III, è stata un’occasione per porre alcune domande a Pierpaolo, ed in particolare per approfondire la sua concezione di cultura, musica e impegno politico.
ON: Benvenuto ad Avanguardia, la nostra festa che intreccia in un quartiere della periferia romana arte, politica e socialità rivolti agli strati popolari. Cosa ti ha spinto a condividere con noi la tua presenza e il tuo contributo artistico?
Non è la prima volta che vengo a Tiburtino III per una festa comunista. Parlando con un compagno del FGC, amico mio, mi ricordava che quella di quest’anno sarà addirittura la quarta volta che mi esibirò qui. Sta ormai per me diventando una magnifica ossessione partecipare a eventi come questo.
Torno sempre molto volentieri ad Avanguardia perché mi piace contribuire. Viviamo in un periodo storico in cui c’è bisogno che ciascuno di noi dia alla causa tutto ciò che può dare. Personalmente, io che sono ormai prossimo ai 60 anni, non sento più il bisogno di prendere, ma, man mano che il camposanto si avvicina, mi accorgo sempre più dell’urgenza di dare qualcosa. Proprio per questo ho deciso di essere qui oggi, così come domani sarò in Friuli per un evento analogo e come in passato ho dato una mano a compagni del PRC, del PCI o di centri sociali, con la voglia di fare cultura e stimolare l’intelletto, particolarmente quello meno “ordinario”, più incosciente, spavaldo e che azzarda. Quanto mi piace essere qui, porca miseria!
ON: Riusciresti a individuare un momento preciso nella tua vita personale e artistica in cui hai preso per la prima volta coscienza del legame indissolubile tra arte, politica e temi sociali in generale?

Pierpaolo Capovilla legge Majakovskij ad Avanguardia, 10 luglio 2025
Io non riesco a distinguere tra arte e politica, perché per me sono la stessa cosa. Io penso che tutto sia politica: la cultura è politica, così come le arti figurative, l’architettura, l’urbanistica, il teatro e la musica. Persino il legame con mia moglie e mio figlio, i miei rapporti privati, le mie relazioni pubbliche nella comunità e nel consorzio umano sono politica.
La domanda è: cos’è la politica? Il problema è proprio questo, perché se tutto è politica allora anche personaggi come Eros Ramazzotti, Tony Effe o Sfera Ebbasta fanno politica. E infatti secondo me la fanno eccome, ma la fanno in senso opposto alla mia, tutto qui.
Io vorrei, per citare Majakovskij, vorrei essere parte di quel “nuovo esercito che forgia la vita”. Vorrei essere un soldato semplice che combatte per un mondo diverso da quello in cui oggi viviamo, facendolo con le armi, pacifiche per il momento, che possiedo.
ON: Qual è la tua opera maggiormente politica, o in generale quella da cui traspare in maniera più chiara il Pierpaolo “politico”?
Come dicevo, per me è tutto politico, compresa la mia opera. Tutte le mie creazioni, canzoni o dischi che siano, trattano temi soprattutto dal carattere sociale o inerenti la vita collettiva. Tutte le mie canzoni si può dire che siano canzoni d’amore: partono dalla sfera privata ma puntano all’universale, partono dall’uno per parlare a tutti. Spero che il processo creativo che innesco con le mie canzoni non si esaurisca con me e con la scrittura della canzone stessa, ma che possa continuare con chi la ascolta. Faccio quindi un uso, devo dire, a volte anche spregiudicato dell’allegoria e dell’iperbole.
Se però dovessi individuare un disco maggiormente politico, citerei “Finché galera non ci separi”, un disco che è una raccolta di poesie di un compagno e amico carcerato, Emidio Paolucci. Si tratta di poesie scritte da Emidio, musicate dal maestro Paki Zennaro, mio caro collaboratore, ed enunciate da me. Credo che sia l’opera più squisitamente politica che sia riuscito a fare nella mia vita. Ne vado molto fiero.
ON: Il contesto politico italiano e internazionale vede da una parte la corsa al riarmo e la preparazione alla guerra da parte di tutti i paesi capitalistici, dall’altra l’aumento vertiginoso dei profitti degli uomini più ricchi al mondo a scapito della grande maggioranza della popolazione. Che lettura dai di questa realtà? E come valuti il ruolo dell’artista di fronte al dilagare di guerra e disuguaglianze?
La sperequazione sociale ha raggiunto una forbice mai vista prima nella storia dell’umanità, è un dato di fatto assolutamente evidente. Si parla ormai della cosiddetta ricchezza infinita, che a mio avviso sta diventando un grave pericolo per la democrazia: se una persona è infinitamente ricca, come i più grandi miliardari di oggi che possiedono ricchezze pari a quelle di interi paesi, può corrompere chiunque. Oggi i più ricchi al mondo non si limitano più a influenzare le scelte politiche dei governi, ma le possono addirittura determinare. In questo modo il privato diventa statuale addirittura. Questo fenomeno non è una novità per il capitalismo, ma solo ora possiamo vederlo in tutta la sua gravità.
Ad esempio io, che vivo a Venezia, ho sperimentato da pochi giorni la ricchezza di uno di questi: Jeff Bezos è arrivato con 90 jet privati, una decina di yacht super-lusso, una cosa vergognosa. Alcuni cittadini veneziani affermano che la sua visita ha portato soldi alla città: per prima cosa, che cazzo ce ne deve fregare a noi dei soldi? Mica si può valutare tutto in base al denaro nella vita! E in secondo luogo, quei soldi vanno ad arricchire solamente i soliti noti, mentre per il resto della popolazione si avrà solo degrado e una città storica come Venezia rischierà di trasformarsi sempre più in una Las Vegas, un parco divertimenti per miliardari che d’ora in poi verranno sempre più nelle nostre città a fare le loro porcherie.
Per quanto riguarda la violenza armata e la guerra, sono ormai alla base non solo del complesso statuale statunitense, ma di tutto il mondo capitalistico. Basti pensare che una delle principali aziende in Italia (seconda solo all’ENI per importanza) è la Leonardo. Queste aziende sono partecipate, quindi sono gestite dallo Stato insieme agli azionisti privati. A questi figli di… la guerra porta davvero tanti profitti. È anche colpa nostra, che non siamo ancora riusciti a cambiare drasticamente le cose, se oggi tutto questo è possibile.

“Vladimir Majakovskij mi ha fatto riscoprire la passione per la politica e per l’impegno. Sono per questo grato a Majakovskij, che è ancora vivo ed è dentro di me”
In questo contesto mi chiedete quale dev’essere il ruolo dell’artista. Per rispondere a questa domanda voglio essere franco. Non mi piace essere etichettato come artista. Io non mi considero un artista, ma piuttosto un compagno, un lavoratore dello spettacolo come altri, come tutti quanti. Cerco di dare del mio, mettendoci il mio talento, le mie capacità intellettuali e la mia forza morale. Questo lo fa chiunque nella vita, lo fa qualsiasi padre di famiglia, operaio eccetera. Questa trappola del capitalismo ci tocca espedirla insieme, io con voi e voi con me. Quello che faccio con la mia musica è con il popolo e per il popolo, tutto il resto è del tutto ininfluente.
In sostanza, quindi, quello che deve fare un artista in questo momento storico è una sola cosa: prendere posizione. Non ci sono scuse, non possono esserci titubanze o scrupoli. Non dovremmo avere paura di manifestare ciò che pensiamo. Facciamo un esempio: a Gaza è in corso un genocidio, bisogna dirlo chiaramente. Da persona partecipe alla vita culturale del paese, voglio che l’Italia quindi interrompa qualsiasi rapporto con Israele. A livello culturale è estremamente importante rompere questi rapporti: hanno ragione Roger Waters e Brian Eno, anche i Massive Attack, mentre hanno torto Nick Cave e Thom Yorke, e tutti quelli che parlano del diritto di difendersi per Israele.
Mi vengono in mente personaggi come Vasco Rossi, che pure personalmente considero una brava persona, il quale all’indomani del 7 ottobre 2023 stentò a prendere una posizione chiara, affermando peraltro in un’intervista a Repubblica di non conoscere nulla della vicenda tra Israele e Palestina, e dicendo di non essere in grado di esprimere un giudizio. Ha incarnato il perfetto stereotipo dell’italiano che dice di non sapere e per questo vuole farsi i cazzi suoi. Quello che può fare un Pierpaolo Capovilla, così come qualsiasi altro “artista”, è alzare la voce, denunciando un fatto paradigmatico per la nostra vita morale e culturale, di cui ci pentiremo e contro cui non possiamo non prendere posizione.
ON: Oggi, così come già altre volte in passato, hai deliziato il pubblico di Avanguardia con i versi di Vladimir Majakovskij, resi ancora più avvincenti dalla tua interpretazione. Quale importanza riveste per te questo straordinario poeta e artista?
Scoprii Majakovskij un paio di decenni fa. Ero in tournée con Il Teatro degli Orrori e avevo comprato, un po’ per noia inizialmente, una raccolta poetica a cura di Guido Carpi. A volte tornando in albergo, ubriaco fradicio e con la voglia di continuare a bere, mi mettevo a leggere a voce alta questa raccolta, davanti ai grandi specchi che solitamente si trovano nelle stanze d’albergo. L’adrenalina per il concerto appena terminato mi dava ulteriore forza interiore. Da queste letture a piena voce rimasi stupito dalla portata di questo grandissimo poeta. Era un momento della mia vita in cui mi stavo un po’ arrendendo al disimpegno e alla rassegnazione, rischiando di scivolare sempre più all’interno di un bar o di una vita comune dentro i soli affari miei. Mi stavo pian piano facendo sussumere dal capitale, insieme alle mie canzoni. Vladimir Majakovskij mi ha fatto riscoprire la passione per la politica e per l’impegno. Sono per questo grato a Majakovskij, che è ancora vivo ed è dentro di me. Perciò mi piace enunciarlo, come farò nell’edizione in corso di Avanguardia, ed in particolare La nuvola in calzoni, il suo poema più complesso, intimo e privato. Ti fa accorgere che il privato è la cosa più pubblica che c’è, che per fare la rivoluzione bisogna partire da noi stessi. E, come vedremo in quest’opera, cambiare il mondo non può prescindere dal cambiare i rapporti di genere. Del resto la storia dell’Unione Sovietica insegna come tra i primi provvedimenti presi dal governo rivoluzionario vi furono quelli per garantire pieni diritti alle donne, come quello al voto, al divorzio. In un contesto come quello russo un fatto del genere rappresentava un vero e proprio schiaffo a una società vecchia e decadente, che doveva essere rinnovata.
ON: Tra le tue letture di oggi anche quelle del poeta palestinese Mahmoud Darwish. Questa scelta si inquadra in una tua presa di posizione in un periodo così tragico per il popolo della Palestina, massacrato da un genocidio che prosegue ormai da 76 anni?
Io leggerò questa sera Silenzio per Gaza, fra i poemi più noti di Darwish, lasciandomi consigliare nella scelta da Pietro Basso, che era il mio professore di sociologia economica. Si tratta di una poesia terribile, sarà impossibile non emozionarmi e non emozionarci. Quello che sta accadendo a Gaza in questo momento è talmente terribile… Darwish era considerato da Saramago il più grande poeta del mondo, ma cos’ha di speciale un poeta? Un poeta dice la verità, e la dice di fronte al tiranno, si chiama parresia – l’arte di dire il vero di fronte al potere, e non è il semplice parlar franco, ma rischiare la pelle per dire ciò che si vuole dire perché lo si conosce. La verità contro il conformismo insomma, la realtà contro la finzione, il poeta non può farne a meno e Darwish è uno di questi. In un poema che leggerò questa sera, c’è una triste protagonista, la cintura esplosiva. È difficile pensare una cosa del genere come un atto di giustizia, eppure Darwish nel suo poema ce lo fa capire: non è un suicidio, non è un atto di arbitrio, è la manifestazione della volontà di Gaza di continuare ad esistere, la disperazione che si fa speranza, o la speranza che si fa disperazione.