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L’imperialismo turco e il “processo di pace”

Di Redazione
28/09/2025
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Raccogliamo e pubblichiamo due articoli da parte del Partito Comunista di Turchia (TKP), tratti dal numero più recente de “La Voce del TKP” di settembre 2025. Buona lettura.

 

Le onde d’urto di una dichiarazione

di Kemal Okuyan – Segretario Generale del TKP

 

Il 1° agosto 2025, il Partito Comunista di Turchia (TKP) ha diffuso una breve dichiarazione al pubblico e lo ha messo a disposizione per la sottoscrizione. Nel giro di pochi giorni, innumerevoli politici, sindacalisti, intellettuali, artisti e accademici hanno dichiarato il loro sostegno. I media, che di solito preferiscono ignorare il TKP, questa volta non hanno potuto nascondere lo shock che ne è derivato. Il fatto che persone di tendenze politiche così divergenti dicessero “la penso allo stesso modo” non ha fatto che amplificare le onde d’urto.

Il testo, di un solo paragrafo, riguardava il nuovo “processo di pace” avviato dal governo con Abdullah Öcalan, leader del PKK, e recitava così:

“Vogliamo pace e fraternità.

Respingiamo la messa in discussione della Repubblica di Turchia e dei risultati del Trattato di Losanna, la messa in discussione dei confini esistenti, le fantasie neo-ottomane, le designazioni illegittime come ‘Impero Turco’, il panislamismo o le strutture e istituzioni politiche basate su identità etniche e religiose.

Vogliamo pace e fraternità, e anche un paese indipendente e laico, una società egualitaria e un’economia pianificata.

Non permetteremo che il nostro paese precipiti nell’abisso.”

Com’è possibile che un testo così breve abbia provocato tanto clamore? La risposta era evidente. Al di là delle contraddizioni e delle incoerenze del nuovo processo – presentato dal PKK come “risoluzione della questione curda” e dal governo come “eliminazione del terrorismo” – le vere intenzioni delle parti stavano emergendo chiaramente. Con l’eccezione di un solo partito nazionalista, ogni partito in parlamento aveva in qualche forma appoggiato il processo. La cosiddetta “sinistra turca”, come sempre, si era accodata al CHP (il partito socialdemocratico) e al DEM (il partito nazionalista curdo) nel sostenere le cosiddette ambizioni di “democratizzazione” dell’AKP (il partito al governo di Erdoğan, ndt) e di Öcalan. Proprio in questa congiuntura, il TKP ha assunto una posizione semplice, concisa, ma convincente per un vasto pubblico – e così facendo si è collocato in maniera diversa.

Contrariamente alle affermazioni del governo, sapevamo che il processo era stato avviato sotto la guida degli Stati Uniti e del Regno Unito, strettamente legato agli sviluppi in Siria. Certo, tra la Turchia e queste potenze esistono contraddizioni reali, talvolta anche crescenti. Ma poiché il capitalismo turco non può spezzare i suoi legami con la NATO né staccarsi economicamente dall’alleanza occidentale, tali contraddizioni non possono maturare fino a trasformarsi in un confronto aperto.

Il ruolo assegnato alla Turchia dagli Stati Uniti e dal Regno Unito durante l’operazione che si è conclusa con l’ingresso dei jihadisti a Damasco equivaleva al tempo stesso a un incentivo e a un ricatto. Il governo Shara (se così lo si può persino definire) era stato scelto dai paesi imperialisti e da Israele per consentire di intervenire a piacimento in Siria. Poiché il governo turco non ha compreso questa dinamica, ha continuato a sostenere incondizionatamente Shara, cercando di garantire l’integrità territoriale e l’unità della Siria attraverso l’autorità di una fazione jihadista a Damasco. Eppure ciò è palesemente impossibile: i massacri contro alawiti e drusi aprirono la porta all’intervento israeliano, mentre la regione curda della Siria, sostenuta politicamente e militarmente dagli Stati Uniti, stava consolidando la sua autonomia de facto.

Il messaggio del leader del PKK alla Turchia – “se vi accordate con noi, diventerete una potenza regionale; altrimenti, la Turchia rimarrà sotto minaccia” – era direttamente legato a questo processo. Questa linea faceva leva sulle ambizioni neo-ottomane dell’AKP, portando però con sé anche la minaccia che i curdi in Siria potessero, se necessario, cadere interamente nell’orbita degli Stati Uniti e di Israele. Tutti sapevano che un simile sviluppo avrebbe riacceso, ancora una volta, le tendenze separatiste tra i curdi in Turchia.

In breve, alla Turchia veniva detto: “o ti espandi, o ti rimpicciolisci”. Questo era il punto centrale della dichiarazione del TKP: il terreno stesso su cui il nazionalismo turco e quello curdo convergevano era marcio. I veri interessi della classe operaia del paese e dei popoli lavoratori della regione risiedono in una trasformazione rivoluzionaria entro i confini esistenti della Turchia.

Il sostegno alla dichiarazione è giunto da ambienti diversi, ciascuno per ragioni differenti. Alcuni tra coloro che hanno firmato sono persone accanto alle quali il TKP non si sarebbe mai schierato in altre circostanze. Ma il testo non recava firme individuali: era stato redatto e diffuso al pubblico dal Partito.

Per i comunisti – la cui base sociale era stata a lungo soffocata da divieti, menzogne e calunnie – l’ampia risonanza di un intervento così netto su una questione tanto decisiva è stata una fonte di incoraggiamento. L’intento della dichiarazione era chiaro; ed è proprio per questo che ha attirato gli attacchi del governo, del PKK e della “sinistra”.

Il TKP ribadiva che le iniziative per la “pace” e la “fraternità” guidate dalle potenze imperialiste e dalla classe capitalista non avrebbero portato altro che nuove ostilità e nuove guerre, poiché l’intero dibattito poggiava su presupposti del tutto falsi. Diversamente, naturalmente, una fine al conflitto che durava da decenni sarebbe stata più che auspicabile.

Ma, come dimostrava l’esempio di uno dei più grandi club calcistici della Turchia che aveva intitolato il proprio stadio a un magnate curdo, i negoziati tra l’AKP, il partito fascista e il PKK non potevano risolvere la questione curda – né, del resto, i problemi dei lavoratori curdi, né, in ultima analisi, quelli dell’intera classe operaia del paese.

Sappiamo che un ampio settore della sinistra internazionale – quella che per anni aveva descritto il PKK come un’organizzazione marxista e rivoluzionaria, che aveva ignorato la sua collaborazione militare, economica e politica con gli Stati Uniti in Siria, che aveva trascurato gli aforismi di Öcalan sull’esperienza sovietica e sul marxismo – è rimasto spiazzato dal riavvicinamento tra l’AKP e il PKK, anche se questo potrebbe presto degenerare in un nuovo conflitto.

Lasciamo invece al lettore un vecchio proverbio turco, al posto dello smarrimento:

“L’ottomano non resta mai a corto di trucchi!”

 

La lotta contro la revisione dei confini e il Trattato di Losanna

di Cansu Oba, membro del Comitato Centrale del TKP

 

La lotta contro la revisione dei confini e il Trattato di LosannaCome comunisti impegnati nella lotta per una società senza classi e senza frontiere, ci troviamo tuttavia oggi costretti a difendere la permanenza dei confini e a opporci alla loro alterazione.

Ma da quando difendere i confini è diventato compito dei comunisti?

La domanda può sembrare provocatoria — persino apolitica — e tuttavia è ragionevole. Per comprendere la posizione comunista su questo tema, bisogna collocarla nel dinamismo della lotta rivoluzionaria. Perché un principio meriti davvero questo nome, deve resistere alla prova del tempo, della geografia e delle nuove sfide e contraddizioni che emergono. La storia del movimento comunista mondiale è piena di posizioni rivoluzionarie diverse, a dimostrazione del fatto che l’approccio dei comunisti ai cambiamenti di confine non è mai stato fisso o permanente.

Durante la Rivoluzione d’Ottobre, ad esempio, nessun partito comunista avrebbe potuto plausibilmente difendere l’immutabilità dei confini. Non si trattava soltanto degli interessi immediati della Rivoluzione. La Rivoluzione d’Ottobre faceva parte di un più ampio processo di decolonizzazione, in cui le lotte per l’indipendenza nazionale in vaste regioni assumevano un ruolo storicamente progressivo. Questa prospettiva prevalse almeno fino ai primi anni Venti, quando divenne evidente che il treno della rivoluzione mondiale in Europa era stato perso. Dopo la Seconda Guerra Mondiale — quando il socialismo riuscì a fermare l’aggressione imperialista e il fascismo — la questione scomparve da gran parte dall’agenda. Tuttavia, di fronte al riemergere di aggressioni e di illegalità, i comunisti giunsero sempre più a considerare la difesa della stabilità dei confini come una priorità.

Oggi, i cambiamenti di confine — siano essi per espansione o per riduzione — sono tornati a essere una questione globale, presente nelle agende nazionali, regionali e internazionali. Essi non avanzano soltanto attraverso conflitti regionali, guerre o programmi separatisti, ma vengono dichiarati apertamente anche in altri modi, come la proposta di Trump di acquistare la Groenlandia. Che avvengano tramite denaro o tramite la forza, la realtà rimane: nella guerra tra Ucraina e Russia, l’affermazione di Putin secondo cui “l’Ucraina non è un vero paese” ha creato un pericoloso precedente per gli attori imperialisti desiderosi di legittimare i cambiamenti di confine. Questo ha segnato anche lo smantellamento quasi totale dei principi ereditati dall’era sovietica — principi che avevano almeno in parte contenuto l’aggressione imperialista senza freni.

È chiaro che nessuno sviluppo o conflitto contemporaneo può essere valutato senza riferimento alle rivalità e agli equilibri all’interno del sistema imperialista. Così, di fronte ad agende che comportano potenziali cambiamenti di confine, è legittimo porsi le seguenti domande:

  • I cambiamenti di confine rafforzano o indeboliscono le classi capitaliste da entrambe le parti del confine?
  • Rendono il conflitto di classe più visibile, oppure rafforzano le narrazioni ideologiche che lo oscurano?
  • Facilitano l’unità della classe operaia — essenziale per l’energia rivoluzionaria — oppure la frammentano lungo linee ideologiche e politiche?
  • Quale sarà il carattere di classe di ogni nuova unità amministrativa e politica creata da un cambiamento di confine?
  • I cambiamenti di confine indeboliranno gli attori imperialisti, oppure ne amplieranno l’influenza?

La lotta contro la revisione dei confini e il Trattato di Losanna

Adottare la posizione corretta in Turchia, anche nei dibattiti plasmati dagli sviluppi in Siria e dal “processo di pace”, è stato ed è tuttora cruciale. Per gli attori politici tradizionali come per i comunisti, la questione dei cambiamenti di confine è da tempo una delle più pressanti. La ragione principale, come abbiamo regolarmente sottolineato in questa pubblicazione, risiede nelle ambizioni espansionistiche del capitale turco, rafforzate dalla visione imperiale e neo-ottomana del governo. Tuttavia, per legittimare socialmente questa visione neo-ottomanista, è necessario un regolamento di conti storico — che inevitabilmente mette in discussione i confini attuali della Turchia.

Il Trattato di Losanna, firmato nel 1923, definì gli attuali confini della Turchia (con l’eccezione di Mosul e del regime degli Stretti). Il trattato può essere visto come un rifiuto del Trattato di Sèvres, imposto all’Impero ottomano alla fine della Prima Guerra Mondiale. La guerra d’indipendenza in Anatolia contro le forze occupanti rese Sèvres, di fatto, nullo. Sebbene il Trattato di Sèvres fosse formalmente un accordo tra le potenze dell’Intesa e l’Impero ottomano, esso rappresentava, in senso più ampio, un’estensione del sistema di Versailles. Per il Comintern, Sèvres — come Versailles — era un trattato imperialista di “pace”: non una pace autentica, ma la base per nuove guerre e nuovi conflitti. Nelle Tesi sulla questione orientale discusse al 4° Congresso del Comintern nel 1922, la fine del Trattato di Sèvres veniva citata come prova della crisi sempre più profonda dell’imperialismo nel dopoguerra e dell’erosione dell’ordine di Versailles. Si sottolineava che la cancellazione di Sèvres aveva creato la possibilità per la Turchia di riconquistare la piena indipendenza nazionale e politica.

Oggi, in Turchia, esistono essenzialmente due correnti politiche che contestano il Trattato di Losanna. La prima è la linea antirepubblicana e islamista politica incarnata dal governo dell’AKP, sostenuto anche da alcuni ambienti nazionalisti turchi. Questo fronte attribuisce alla leadership di Mustafa Kemal, “timida e priva di ambizione”, la colpa di aver limitato i confini del paese all’Anatolia e, mettendo in discussione Losanna e la Repubblica, sogna di far rivivere un dominio più ampio — ciò che definiamo neo-ottomanesimo. La seconda è il movimento nazionalista curdo, che considera Losanna illegittimo perché ha annullato il Trattato di Sèvres, il quale prevedeva la creazione di uno stato curdo in parte dell’Anatolia. Da questa prospettiva, Losanna rappresentò la negazione dei diritti dei curdi…

Ma una volta legittimati i cambiamenti di confine sulla base di rivendicazioni storiche di tipo etnico, chi decide dove tali dibattiti debbano finire? Un simile approccio apre un percorso senza fine — che potrebbe accendere contese non solo sui confini orientali e sud-orientali della Turchia, ma anche nell’Egeo, nei Balcani e nel Caucaso. Lungi dal portare giustizia ai popoli, ciò genererebbe soltanto nuove sofferenze e massacri.

Soprattutto dopo il conflitto siriano e il “processo di pace”, il TKP ha richiamato sempre più spesso il Trattato di Losanna nelle proprie analisi e dichiarazioni politiche. Per il TKP, difendere Losanna non significa soltanto rivendicare il carattere progressivo di un documento di vittoria contro l’imperialismo, ma anche riconoscere che riaprire la questione dei confini significherebbe inevitabilmente provocare guerre più ampie in tutta la regione e minare l’unità della classe operaia, che nel tempo si è forgiata entro confini definiti da una storia comune di lotta e di cultura di classe.

Per tornare al punto di partenza: il mondo di oggi pone sulle spalle dei comunisti la responsabilità di lottare contro i cambiamenti di confine. E non vi è nulla in questa posizione che contraddica l’orizzonte di una società senza classi e senza sfruttamento. Al contrario, essa riflette non un’accettazione passiva di uno status quo reazionario, ma un approccio tattico intrinseco alla nostra strategia socialista e rivoluzionaria. Sì, questo è legato direttamente al fatto che non viviamo in un periodo di ascesa di un processo rivoluzionario mondiale; eppure, nessuno può guardare il mondo di oggi e affermare che uno sviluppo del genere sia del tutto fuori portata. Pertanto, questa responsabilità non implica un semplice aggrapparsi allo status quo. Al contrario: la nostra bussola richiede un processo dinamico di valutazione — guidato, soprattutto, dagli interessi della rivoluzione.

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