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Home›Capitale/lavoro›Stimoli anticrisi: le differenze fra USA ed Eurozona

Stimoli anticrisi: le differenze fra USA ed Eurozona

Di Domenico Moro
29/03/2021
2007
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La crisi del Covid-19 sta funzionando come un reset dell’intero sistema capitalistico mondiale. La crisi, che è la maggiore dal ’29, sta dando la possibilità di spendere denaro pubblico come mai era accaduto prima in assenza di guerre. A questo proposito si può dire che quella che viene definita una “guerra” al virus sta rivelandosi utile per il capitalismo, in affanno da molti anni e non in grado crescere a ritmi sufficienti, un po’ come se fosse una guerra vera. Del resto, è noto che l’uscita dalla crisi del ’29 avvenne solamente grazie alle enormi spese belliche e alla ricostruzione dovute alla Seconda guerra mondiale. L’espansione del debito pubblico ne è una conseguenza immediata. Tuttavia, non in tutti i centri del capitalismo mondiale si risponde nello stesso modo.

In particolare si sta evidenziando una differenza nell’entità della spesa statale per la ripresa dell’economia tra la Ue e gli Usa, che può scavare un solco ancora più profondo tra la ripresa degli Usa e quella dei paesi Ue, in particolare quelli dell’eurozona. Recentemente l’Ocse ha rivisto al rialzo la crescita prevista per il 2021 negli Usa dal 3,2% al 6,5%, mentre la crescita dell’eurozona sarà solo del 3,9%. La ragione sta nella diversa entità dei piani di stimolo economici delle due aree economiche. Gli Usa hanno appena varato un piano da 1.900 miliardi di dollari, che si aggiunge allo stimolo da 900 miliardi della fine del mandato presidenziale di Trump.  In tutto i due stimoli fiscali ammontano al 12% del Pil statunitense. Inoltre, è in discussione un ulteriore finanziamento, tra i 2000 e i 3000 miliardi, per il rilancio delle infrastrutture statunitensi non solo digitali ma anche di trasporto fisico, che versano in cattive condizioni, a cominciare dalla rete stradale per un quinto dissestata.

Nel complesso gli Usa anticiperanno l’Europa di un anno nel ritorno ai livelli di produzione pre crisi. Del resto, al confronto con il maxi stimolo statunitense la cifra prevista dal Recovery Plan europeo, 750 miliardi di euro, appare poca cosa, senza contare che una parte dell’importo è rappresentato da prestiti e non da veri e propri sussidi a fondo perduto.

Mario DraghiLo stimolo fiscale complessivo delle varie economie dell’eurozona e del Recovery Plan ammonta al 6% del Pil, cioè la metà di quanto pesa lo stimolo degli Usa sul loro Pil.  Gli Usa, quindi, sembrano aver imparato più della Ue la lezione della crisi del 2007-2008, quando le misure espansive anticrisi vennero ritirate troppo presto e ci fu una ricaduta nella crisi.  È stata proprio la consapevolezza del ritardo europeo per quanto riguarda gli stimoli fiscali che ha portato Draghi, nel corso dell’ultimo Eurosummit sul ruolo internazionale dell’euro, a proporre la creazione di un titolo di debito europeo (eurobond), in modo tale da arrivare alla realizzazione di un vero e proprio debito pubblico europeo.

La proposta di Draghi è coerente con quanto da lui affermato più volte nell’ultimo anno sulla necessità di fare debito e si inquadra in un tentativo di riforma del funzionamento dell’Ue, orientato a renderla più flessibile nell’affrontare le crisi, sempre in un’ottica funzionale alla ripresa dell’accumulazione capitalistica e al rafforzamento della frazione europea del capitale internazionale.

C’è da dire, comunque, che lo stimolo alla domanda interna degli Usa avrà effetti anche sull’economia europea, attraverso l’aumento delle importazioni statunitensi dalla Ue. Secondo un report di Allianz, nel 2021-2022 ci sarà un aumento delle esportazioni mondiali verso gli Usa di 360 miliardi, dei quali la parte più consistente, 97 miliardi, spetterebbe alla Ue. In tutto lo stimolo Usa potrebbe portare nel 2021 a un aumento dello 0,5% del Pil europeo. Senza contare che i piani di sviluppo infrastrutturale rappresentano un mercato di investimento diretto estero potenziale anche per imprese di costruzione e di trasporto europee.

Gli stimoli hanno dato luogo a una impennata del debito pubblico non solo negli Usa, dove è arrivato al 137% sul Pil, ma anche a livello mondiale. Secondo un rapporto S&P Global Ratings, l’indebitamento statale a livello globale è arrivato a 61.300 miliardi di dollari che, si prevede, saliranno a 67.500 miliardi, cifra pari al 75% del Pil mondiale, nel 2021. Il ruolo delle banche centrali è, a questo proposito, molto importante, perché acquistano una parte consistente del debito pubblico dei rispettivi paesi e aree di appartenenza.

Anche se non si può parlare di cancellazione del debito, le Banche centrali non possono essere ritenute detentori qualsiasi del debito di Stato, specialmente se i titoli di Stato dovessero rimanere custoditi, e quindi in qualche modo “sterilizzati”, nei loro forzieri. È come se la mano destra del governo dovesse del denaro alla mano sinistra. Per quanto riguarda le aree economiche principali, Usa, Giappone, Eurozona e Regno Unito, circa il 24% del loro debito pubblico è custodito dalle rispettive banche centrali.

Jerome Powell Christine LagardePerò, questo tipo di intervento pubblico attraverso le Banche centrali non avviene dappertutto con la stessa intensità. Ad oggi la Banca centrale Usa (la Fed) ha titoli di Stato (e altri asset) nel suo bilancio per un importo pari ad appena il 35% del Pil Usa, mentre la Bce arriva al 61% e la Bank of Japan addirittura al 127%. Quindi, anche se gli Usa hanno spinto moltissimo sul piano dello stimolo fiscale, dal punto di vista dello stimolo monetario non hanno spinto con altrettanta incisività. Questo ha provocato un aumento dei rendimenti sui titoli di Stato Usa che sono passati dallo 0,91% di inizio anno all’1,74% recente. Al contrario di quanto avviene per lo stimolo fiscale è l’Eurozona a essere più attiva degli Usa. Infatti, il piano di acquisti di titoli di Stato (Pepp) è stato portato dai 750 miliardi di euro dell’inizio a 1850 miliardi, con acquisti previsti fino alla fine di marzo 2022. Recentemente la presidente della Bce, Christine Lagarde, ha annunciato che aumenterà gli acquisti nei prossimi mesi, anche a fronte dell’aumento dei tassi d’interesse sui titoli di Stato europei spinti dalla crescita di quelli statunitensi. Al contrario gli Usa, che, per finanziare la campagna di stimoli, dovranno emettere 2.500 miliardi di dollari in titoli di Stato, non hanno assistito a dichiarazioni di uguale segno da parte del presidente della Fed, Jerome Powell. Fra l’altro a fine marzo scadono gli allentamenti, decisi dalla Fed, delle regole contabili delle banche statunitensi che hanno permesso a queste ultime forti acquisti di titoli di Stato Usa. Infatti, in vista della scadenza le banche statunitensi negli ultimi due mesi hanno venduto titoli di Stato Usa, determinando un calo dei Treasury nei loro bilanci dai 206 ai 154 miliardi.
US Dollars

Gli Usa hanno, però, un asso nella manica, rappresentato dal loro ruolo imperialista ed egemonico a livello mondiale. Questo ruolo si rispecchia nel fatto che il dollaro è la valuta mondiale per eccellenza, dal momento che viene utilizzata come moneta di riserva e di transazione commerciale a livello internazionale. In questo modo, gli Usa sono sempre riusciti a farsi finanziare dall’estero, attraverso l’acquisto del proprio debito da parte delle banche centrali di altri Paesi.

I più grandi detentori di titoli di Stato in dollari sono il Giappone (1.276 miliardi) e la Cina (1.095 miliardi), che sono anche grandi esportatori di beni negli Usa. Tuttavia l’ammontare dei titoli di Stato Usa all’estero è diminuito negli ultimi mesi, scendendo dai 7.226 miliardi di dollari del febbraio 2020 ai 7.119 miliardi. Esiste, quindi, un forte legame tra le politiche espansive all’interno e le politiche aggressive all’esterno, necessarie per ribadire il ruolo del dollaro come valuta mondiale. Se gli Usa vogliono continuare a essere la potenza dominante devono, da una parte, spendere per sostenere la domanda interna e mantenere competitiva la propria economia e, dall’altra parte, devono mantenere il loro ruolo egemonico, specie sul piano tecnologico, diplomatico e militare. Si tratta in definitiva di oliare di nuovo quel meccanismo con cui gli Usa si sostengono da tempo: fare debito che viene acquistato dall’estero in cambio del ruolo di traino dell’economia mondiale che viene svolto mediante l’importazione di beni dall’estero. Si tratta di un meccanismo parassitario, tipico dell’imperialismo nella sua fase più matura, quella del capitale finanziario e della sovrapproduzione assoluta di capitale, che genera la caduta tendenziale del saggio di profitto. Ancora una volta un ruolo importante verrà svolto dal dollaro, l’”esorbitante privilegio” degli Usa, come lo definì negli anni ’60 il ministro delle finanze francese Valery Giscard D’Estaing

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Domenico Moro

Ricercatore Istat, si interessa di statistiche economiche. Ha scritto numerosi volumi, tradotti nelle più importanti lingue europee, tra cui “La gabbia dell’euro, perché uscirne è internazionalista e di sinistra”, “Globalizzazione e decadenza industriale”, “La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico”, “Il gruppo Bilderberg, l’élite del potere mondiale”, “Nuovo Compendio del capitale”. Scrive anche su riviste italiane ed estere. Da sempre militante nel movimento comunista italiano, oggi dirige la rivista Laboratorio 21.

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