Il nostro signor padrone dalle belle brache
è buono come lo è il buon pane,
stando in cima all’argine
dice: «Fate andare quelle mani ».
Si apre così, con una citazione del canto di lavoro della prima metà del Novecento “Sciur padrun da li beli braghi bianchi”, il film breve 1485 kHz (Se otto ore)[1]. Diretto da Michele Pastrello[2], regista indipendente veneto, e con la partecipazione di Lorena Trevisan, Emiliano Grisostolo, Marco Marchese, questo cortometraggio no-budget riesce a coniugare il genere cinematografico dell’horror con tematiche sociali come la precarietà e lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei padroni; un’impresa non semplice, per un genere che non frequentemente si presta a tematiche di questo tipo.

La locandina di 1485 kHz (Se otto ore)
Richiamato anche dal titolo dell’opera, il canto delle mondine dei primi anni del XX secolo “Se otto ore vi sembran poche” diventa da una parte il filo conduttore della vicenda di una lavoratrice, costretta dal proprio padrone sotto minaccia del licenziamento a recarsi in un luogo che si rivelerà pericoloso e in cui già un’altra lavoratrice era scomparsa (presumibilmente perdendo la vita); dall’altra un elemento di continuità e sovrapponibilità tra lo sfruttamento novecentesco e quello che i proletari sono costretti a vivere anche oggi, non qualitativamente differenti.
La paura di scontentare il padrone, che minaccia la lavoratrice con il suo «vedi di non deludermi», pena essere «fuori dalla strategy aziendale», diventa l’elemento centrale del film, il vero elemento di paura è quindi l’“orrore” dello sfruttamento e della precarietà. I padroni depredano i lavoratori, traendo profitto dalle vite stesse dei propri operai, per i quali i luoghi di lavoro si trasformano in molti casi in luoghi di morte in nome degli interessi della borghesia.
E proprio la cifra ‘8’, come le ore lavorative richiamate dal canto novecentesco, marchiata sulla stessa pelle dei lavoratori, rappresenta un lavoro salariato che segna a tutti gli effetti i proletari, condizionando profondamente le loro vite e impedendone il pieno sviluppo umano.
Abbiamo deciso di dare spazio a un’opera che, pur nelle difficoltà della produzione indipendente in un contesto di stradominio delle grandi case cinematografiche e delle piattaforme di streaming, ha il merito di porre al centro del dibattito temi sociali e di classe. Abbiamo quindi intervistato il regista, Michele Pastrello.
Non è consueta l’associazione del genere horror a tematiche sociali. Puoi raccontarci come nasce 1485 kHz (Se otto ore) e quale significato gli hai attribuito?
Hai ragione: oggi non è così comune associare l’orrore a tematiche sociali, ma in realtà esiste una tradizione precisa in questo senso – e viene proprio dagli Stati Uniti. Negli anni ’70, registi storicamente importanti come George A. Romero, Tobe Hooper, Wes Craven, Larry Cohen e Bryan Forbes hanno utilizzato l’horror o il thriller come uno specchio distorto, ma potentissimo, per riflettere paure collettive e tensioni sociali. Penso a film come Dawn of the Dead, The Texas Chain Saw Massacre, The Serpent and the Rainbow o The Stepford Wives – opere che, sotto la superficie del terrore, parlavano di consumismo, disuguaglianza, autoritarismo e patriarcato. Con 1485 kHz (Se otto ore) ho cercato di muovermi in quella direzione. L’idea è nata proprio da una domanda: è possibile fare un horror che sia anche una riflessione politica? Per me, sì, anche in passato l’ho fatto e, anzi, è una delle forme più sincere per parlare di traumi collettivi, sfruttamento, abbandono, senza cadere nel rischio della retorica. Certo, 1485 kHz può essere goduto solamente anche come una dark ghost movie sulla metafonia e la transcomunicazione del fisico Ernst Senkowski, non ho sacrificato il genere per la tematica: nei limiti del minutaggio, credo ci sia un buon equilibrio.
Puoi raccontarci la tua esperienza nella regia, con particolare riferimento a quali sono le difficoltà che un regista emergente incontra in un settore, quello della produzione cinematografica, in cui i monopoli dell’intrattenimento la fanno da padroni? Ci sono barriere di classe per quanti decidano di intraprendere questo percorso?

Il regista Michele Pastrello
Partiamo da un presupposto: il film è un’arte mentre il cinema è un’industria, sosteneva Luigi Chiarini. Un’industria con interventi diretti pubblici, che si sono cominciati a normare sempre più dal 1965 (Legge Corona) in poi. In Italia, insomma, se vuoi fare cinema – che si tratti di fiction o documentario – non puoi non confrontarti con il sistema pubblico di finanziamento. La maggior parte dei film si rifà ai fondi elargiti dallo Stato, ma questo implica inevitabilmente entrare in un sistema che è dominato da meccanismi di sostegno pubblico, con tutto ciò che puoi immaginare comporti il termine meccanismi. Se non sei “nessuno”, puoi immaginare cosa comporti diventare interessante; se invece arrivi (con merito o senza) a farti notare, il rischio è che qualcun altro, qualcuno che ti è sopra, voglia prendere il controllo del tuo progetto e decidere per te. Non è facile: se non hai ancora un nome solidamente riconosciuto, l’insidia è che il tuo progetto possa non ricevere attenzione. E se riesci ad emergere, a volte ti trovi davanti alla difficoltà di dover cedere una parte del controllo del tuo film a chi potrebbe voler smussare la tua voce artistica.
Per quanto riguarda le barriere di classe, queste si declinano facilmente in un fenomeno che conosciamo bene: il nepotismo. Il cinema, come tanti altri settori, non è immune da questo, e le connessioni personali e familiari giocano un ruolo fondamentale nell’accesso alle opportunità. Se sei figlio di qualcuno che conta, o hai amici giusti, le porte si aprono molto più facilmente. E questo, purtroppo, è un elemento che non si limita al mondo del cinema, ma attraversa vari ambiti professionali nazionali e non solo.
Nutro altresì riserve sulle modalità di selezione adottate da diversi – non tutti, naturalmente – festival che si definiscono attenti al cinema indipendente. In particolare, mi interrogano le connessioni che sovente si creano tra questi eventi e alcune società di distribuzione dai costi non sempre sostenibili, così come l’uso sistematico di piattaforme a pagamento come FilmFreeway da parte di tanti festival.
Basandoti sulla tua esperienza, quali consigli daresti a quanti vogliano intraprendere il percorso della regia indipendente?
Questa è una domanda complessa, perché il percorso della regia indipendente è tutt’altro che facile. Se decidi di rimanere completamente indipendente, ovvero di realizzare opere utilizzando le tue risorse e know-how, ti ritrovi inevitabilmente ai margini del sistema. Purtroppo, è estremamente difficile riuscire ad arrivare nelle sale cinematografiche, e anche le piattaforme di streaming, che rappresentano una opportunità ma anche un grosso problema, spesso non offrono un supporto adeguato. Il singolo filmmaker, infatti, si vede riconoscere solo le briciole in un contesto che tende a premiare ben altri tipi di distribuzione.
In tutta onestà, vorrei che ci fosse molta più visibilità per il cinema indipendente, quello delle voci autarchiche, e credo fermamente che ci sia bisogno di un movimento collettivo che unisca le forze dei vari cineasti. Solo unendo le risorse (e facendo autocritica: essere indipendenti non giustifica l’amatorialità), possiamo crescere come voce e migliorare le nostre prospettive artistiche. Non mi sento di dare consigli singoli, ma posso raccontare di registi che hanno scelto di abbracciare il circuito ufficiale, solo per ritrovarsi scontenti. Spesso questi registi si sono trovati coinvolti in progetti che non potevano né controllare nella fase realizzativa né tanto meno nella distribuzione, e alla fine le loro opere sono risultate deboli o addirittura perse in un sistema di distribuzione che non le valorizzava. C’è da dire, però, che c’è anche chi ha saputo invece trovare il suo percorso.
Nel tuo curriculum sono presenti diverse opere con chiari riferimenti a questioni sociali. Ritieni che il cinema possa essere un mezzo di denuncia e presa di coscienza dei problemi che affliggono la nostra società?
Credo che il (buon) cinema possa rappresentare un tassello importante all’interno di un mosaico più ampio, che comprende varie forme artistiche capaci di parlare alle persone, stimolare riflessioni e contribuire alla loro formazione, sia intellettuale che emotiva. Il cinema, insomma, può essere un potente strumento di consapevolezza.
È anche, certamente, un mezzo di denuncia. Sarebbe difficile sostenere il contrario se pensiamo all’impatto che hanno avuto, e continuano ad avere, i film di Costa-Gavras, Oliver Stone, Ken Loach o Volker Schlöndorff: opere che hanno saputo intercettare tensioni sociali e politiche, e raccontarle con forza e urgenza.
Ma questo è sufficiente? No, l’arte da sola non basta. Può aprire degli spiragli, questo sì.
In 1485 kHz (Se otto ore) hai fatto riferimento a ben due canti di lavoro delle mondine nel nord Italia, “Sciur padrun da li beli braghi bianchi” e “Se otto ore vi sembran poche”. Questa citazione deriva da una tua particolare ricerca o sensibilità sulla storia del movimento operaio?

“Se anche una sola persona, vedendo il film, si pone una domanda in più su chi comanda davvero, su cosa è giusto accettare e cosa no, allora sì, avrò forse raggiunto qualcosa”
Sì, l’inserimento di quei due canti non è casuale: sono simboli forti di una memoria storica che spesso resta ai margini del racconto nazionale. “Sciur padrun da li beli braghi bianchi” e “Se otto ore vi sembran poche” sono canti di rivendicazione, nati in un periodo – tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra – in cui i lavoratori lottavano per condizioni più giuste, salario dignitoso e orari umani.
Nel mio film, questi canti fanno eco al biennio rosso (1919-1920), un momento chiave della storia sociale italiana. I lavoratori chiedevano di vedere riconosciuti diritti basilari ma anche il diritto di alzare la voce. Ma quel movimento fu presto represso con durezza, e da lì a pochi anni avrebbe preso forma il fascismo, anche come reazione brutale a quelle spinte dal basso.
Questi eventi storici, pur lontani, trovano ancora oggi eco nel presente. La riflessione sulla “falsa coscienza” di cui parlava Engels – cioè quel meccanismo per cui il lavoratore finisce col considerare normale la sottomissione – mi sembra più che mai attuale. Siamo in un’epoca (ma forse lo siam sempre stati) in cui spesso si interiorizza il sacrificio come unica via possibile, come “prezzo del lavoro”, del farcela, senza vedere alternative.
Pensi sia necessario che i lavoratori prendano coscienza dell’orrore dello sfruttamento? Auspichi che 1485 kHz (Se otto ore) possa contribuire a tale scopo?
Sì, penso sia fondamentale che i lavoratori – ma anche chi non si considera tale – prendano coscienza della realtà delle condizioni lavorative penalizzanti. Non parlo solo delle forme più brutali o visibili, ma di quell’erosione lenta, sistematica, della dignità, del tempo, della salute, che avviene ogni giorno e che viene normalizzata. C’è un detto, di cui purtroppo non conosco la paternità, che recita: “Se non ci si organizza, il capitale ti invita a cena solo perché sei nel menu.” Ecco, credo sia perfetto per rendere l’idea.
1485 kHz (Se otto ore) non nasce con l’intento di essere un manifesto ideologico o un film “contro il padrone” in senso stretto, questo no, conosco imprenditori attenti e corretti. Ma ci sono tante zone d’ombra. 1485 kHz vuole accendere una luce su un sistema che lavora per far credere alla classe proletaria – o a ciò che oggi resta di essa – di essere rappresentata da figure (e slogan) che in realtà non hanno alcun interesse reale a cambiare lo status quo. Anzi, spesso la usano, la strumentalizzano, per fini propri. Il cortometraggio esprime proprio questo: di povera gente che non parla (più) con la sua voce e nemmeno lo sa.
Se anche una sola persona, vedendo il film, si pone una domanda in più su chi comanda davvero, su cosa è giusto accettare e cosa no, allora sì, avrò forse raggiunto qualcosa.
Note
[1]: Sito ufficiale: https://www.1485khz-seottoore-film.com/Link al film: http://reveel.film/TIR5cE9rnu73BXY [2]: https://www.michelepastrello-sound-vision.it/