Le Radici nel Cemento sono un gruppo reggae romano fondato nel 1995 e che quest’anno festeggia i 30 anni di musica. Proprio celebrando questo importante traguardo, lo scorso 12 luglio, la band si è esibita sul palco della festa Avanguardia.
In occasione della loro partecipazione alla festa, l’Ordine Nuovo ha avuto il piacere di intervistare Giorgio Spriano (in arte Rastablanco), il chitarrista storico del collettivo romano, scambiando con lui qualche commento sul rapporto tra musica e politica.
ON: Benvenuto ad Avanguardia, una festa popolare che punta a portare musica, socialità, cultura e politica in un quartiere della periferia romana come Tiburtino III. Cosa ne pensate come Radici nel Cemento del nostro approccio, di portare la musica e la cultura direttamente nei luoghi vissuti dagli strati popolari?
G: Direi che, per come la vedo io, questo è l’unico modo. Purtroppo le necessità organizzative di questa città non possono prescindere evidentemente da grandi festival “generalisti”, però la cultura riportata nei quartieri e nelle periferie dovrebbe essere la via principale: ci sono tante zone della città, di tante città, che dal punto di vista culturale e artistico sono “eterodirette”. Io ad esempio abito sul litorale, e qui non c’è nulla che non provenga direttamente dall’organizzazione del comune, che poco hanno a che vedere con quello che si muove realmente sul territorio. Con i miei amici di Ostia, dico spesso che noi siamo un gruppo che è nato qui ma non ci ha mai suonato da vent’anni a questa parte… abbiamo suonato in Europa ma mai sotto casa.
ON: Quali sono stati gli ascolti musicali, e altre forme di contatto con l’arte, che ti hanno formato musicalmente in gioventù? E’ stata la musica a spingerti sul terreno dell’impegno politico, o viceversa?

Giorgio Spriano “Rastablanco” si esibisce ad Avanguardia, 12 luglio 2025
G: Io come la maggior parte delle persone della mia generazione, che hanno fatto musica più o meno professionalmente, provengo dal rock classico degli anni ‘70 e ‘80, con scivoloni sul punk e sul metal a seconda della fase di quanto ero incazzato… Il mio gruppo di riferimento sono sempre stati i Pink Floyd, essendo un chitarrista ho amato moltissimo David Gilmour, poi ho anche altri riferimenti chitarristici ma lui rimane il mio riferimento anche emotivamente, sentimentalmente, rispetto a tutti i concerti che ho avuto modo di vedere (anche a Venezia, tra l’altro). Resto legato a quel gruppo, a quel periodo storico e musicale. Il reggae è arrivato in un secondo momento, con lo ska, grazie all’intervento di alcuni amici e compagni dell’area, che avevano queste audiocassette che giravano. Abbiamo iniziato ad ascoltare musica reggae, ma non Bob Marley, perché era già ben noto e diffuso, ma al di fuori di Marley c’era un mondo che abbiamo cominciato a scoprire che ci ha fatto innamorare tutti subito, e che abbiamo poi seguito nella nostra crescita musicale. Per quanto riguarda il rapporto tra musica e politica, direi che è arrivata prima la politica, ben prima di pensare anche lontanamente di fare parte di una band che avrebbe poi continuato a suonare per trent’anni. Ci siamo ritrovati quasi per gioco a fare questa cosa, tant’è che del gruppo storico sono rimasto solo io: quasi nessuno aveva impostato la propria vita pensando di fare questo. La politica ho iniziato a seguirla al liceo, con i primi centri sociali. Io porto anche un cognome, Spriano, che è familiare sicuramente a chi conosce la storia del Partito Comunista Italiano: di famiglia, per certi versi, provengo da quel mondo. Poi ho fatto parte di un percorso politico che non andava neanche troppo d’accordo col concetto di partito, in quel periodo storico, vengo da quella parte di sinistra un po’ eretica. Poi le cose successivamente sono cambiate, e oggi magari avercelo, il Partito! Quindi la musica è arrivata sicuramente dopo la politica.
ON: Paolo Spriano, partigiano e storico del PCI e del movimento comunista in Italia. Un’eredità come la sua, o in generale della tua famiglia, è stata per te ispiratrice per quelle che sarebbero poi state le tue convinzioni politiche?
G: Sì, assolutamente, avere questo “mostro sacro” in famiglia è stato importante: anche a scuola o all’università i professori mi chiedevano sempre, notando il mio cognome. Poi però la mia storia politica è nata a scuola, con le occupazioni, con quello che rimaneva dei sogni dell’autonomia, un percorso che non mi ha mai tanto portato ad essere vicino al PCI, né tantomeno alle varie derive che ci sono state dopo. Indubbiamente il fatto di provenire da quel mondo mi ha subito incuriosito anche a livello di letture, per scoprire di cosa si trattava. Era un periodo storico in cui c’era ancora un bel fervore, una forte partecipazione degli studenti e dei lavoratori alla politica, una fase di lotta ancora forte, per certi versi era più facile rispetto ad oggi seguire quell’onda. Oggi si vede da parte delle giovani generazioni un certo distacco dalla politica, dall’interesse per la cosa pubblica, queste cose lo sappiamo sono state “macinate” da 20-30 anni di controcultura, quella brutta però, non quella che cerchiamo di portare avanti noi.
ON: Con la serata di oggi (sabato 12 luglio) ad Avanguardia avete festeggiato i 30 anni di carriera musicale. Quale pensi sia il successo maggiore delle Radici nel Cemento e tuo personale, in un contesto in cui la musica viene spesso piegata a logiche di mercato oppure di non compromissione politica con idee ritenute “scomode”?

Il concerto delle Radici nel Cemento ad Avanguardia
G: Questa è una bella domanda. In tutti questi anni, con tutti i componenti del gruppo che sono passati e venuti, ognuno darebbe una risposta diversa, ognuno l’ha vissuta in maniera propria. Io ho sempre pensato che la cosa più importante per noi sia stato fare sempre quello che più o meno avevamo in testa di fare, non tanto la canzone che è arrivata in quella posizione o che ci ha portato in quel particolare festival. Abbiamo avuto la fortuna, forse un po’ la bravura e forse un po’ la sciagura di scrivere sempre quello che pensavamo e vedevamo in giro. Ci hanno sempre etichettato come gruppo militante, ma quando io penso ad un gruppo militante penso alla Banda Bassotti, non penso a noi. Questo perché noi individualmente facevamo parte di qualcosa, ognuno faceva il proprio, e forse ci siamo mossi come collettivo artistico: però noi abbiamo sempre scritto e continuiamo a scrivere di quello che facciamo nella vita, che vediamo intorno, non perché vogliamo fare politica con la musica, ma perché la politica è quello che facciamo nella vita.
È ovvio che oggi, se accendo la televisione, o guardo sui social media, si parla di Palestina, di Ucraina, si parla dei dazi, è probabile che se domani mi metto a scrivere qualcosa parlerò di questo e del mio punto di vista. Noi abbiamo sempre fatto così, e questo secondo me è il nostro successo più grande: non essere mai stati costretti, da tizio o da caio, a scrivere o a non scrivere qualcosa, non aver mai ceduto alla tentazione di una leadership, di un frontman che dovesse catalizzare in qualche modo la facciata del gruppo. Siamo sempre stati na banda de scappati de casa, uno entra e uno esce, da trent’anni noi facciamo musica a livello semi-professionale: abbiamo sempre però scritto e suonato quello che ci pareva, senza dar troppo conto a quello che pensava la gente.
Ad esempio, siamo andati da Costanzo (si riferisce alla partecipazione al programma TV Buon Pomeriggio su Canale 5) e ci hanno pesantemente criticati: ma noi, in maniera molto sofferta, ritenevamo in quel momento di poter dare una mano, con la nostra canzone “Bella ciccia”, con quella che in quel momento era una piaga sociale, come l’anoressia, la bulimia e problemi simili. Non siamo andati per farci vedere, sappiamo benissimo Costanzo cosa rappresenta, ma per volere aiutare: l’abbiamo fatto perché ci andava di farlo, se posso dare una mano a qualcuno, salvare qualche adolescente da questi problemi, lo faccio. Poi la soddisfazione è stata che ci hanno scritto in privato dei medici, che ci hanno detto che grazie a quella canzone, passata in televisione, un po’ di gente ha trovato un appiglio, un po’ di forza e coraggio in più, e per noi quindi ne è valsa la pena.
ON: Al concerto ha preso parte anche Gian Paolo “Picchio” Picchiami, storica voce della Banda Bassotti: come siete arrivati a questa collaborazione? Pensi che siano da sviluppare e intensificare questi rapporti di collaborazione per gli artisti impegnati socialmente?
G: Sicuramente si, ma da questo punto di vista noi non siamo troppo bravi in questo, nel tessere reti e fare fronte comune. Noi veniamo dagli anni ‘90 dove c’era una forte volontà di unirsi tra posse, tra gruppi, tra artisti che bene o male la vedevano allo stesso modo. Purtroppo nella sconfitta che c’è stata in quel periodo storico c’è anche questo, che ognuno è andato per conto suo e ci si è dimenticati di queste bellissime idee che c’erano anche sull’autoproduzione, sull’essere indipendenti veramente (non essere indie) cioè creare un circuito artistico e culturale che andasse per conto suo, con le proprie tematiche a prescindere dal mainstream. Invece poi tutti quanti, noi compresi, siamo andati per la nostra strada, e dove c’era la possibilità di suonare in un posto che non era proprio di area, ci siamo andati senza problemi.
Bisognerebbe vedere chi sono quelli che ci credono veramente a queste cose oggi, perché, senza voler per forza fare polemica, ci sono gruppi che trattano certi temi nelle loro canzoni ma poi chiedono cifre folli per un concerto… quindi io so che bisogna fare rete, so con quali mi piacerebbe fare rete, ma so anche con chi non vorrei avere a che fare, a prescindere che cantino o meno Bella Ciao. Noi non siamo un gruppo che fa tanta politica nei concerti, magari la restituiamo attraverso le partecipazioni nelle situazioni che sono vicine a noi, come l’ANPI, come Avanguardia. Senza fare il concerto ultra-militante, facciamo “musica leggera”: sarebbe bello però che si creasse una rete di band che lavorano più o meno nella stessa direzione, ma ci si scontra con la stessa difficoltà che oggi c’è nel fare qualsiasi cosa: sarebbe bello che questa condivisione si creasse anche nelle forze politiche, ma anche con idee simili ognuno va per conto suo, quindi evidentemente non è così facile.

“Picchio” della Banda Bassotti al concerto delle Radici nel Cemento ad Avanguardia
Per quanto riguarda la Banda Bassotti, io sono stato un fan dei primi tempi, prima ancora di suonare con le Radici, andavo a vedere i loro concerti all’università quando c’era ancora la prima formazione: sono rimasto affascinato anche dalla storia umana di questo gruppo. Quando penso al gruppo militante, penso alla Banda Bassotti: sono andati in Nicaragua, a Cuba, in Donbass, vanno ancora in tutto il mondo a portare l’internazionalismo, questo per me è essere militanti. Il resto delle band hanno le idee giuste, le canzoni giuste, portano messaggi giusti ma per me la militanza è quella.
La fortuna nostra è stata che la Gridalo Forte Records, l’etichetta che allora produceva la Banda Bassotti e tanti gruppi dell’area skinhead, redskin, SHARP (Skinheads Against Racial Prejudice), romana e non, quando la Banda rimase ferma per diversi anni cercava un gruppo da poter produrre. Noi avevamo delle amicizie in comune, e quindi il nostro piccolo demo con 4 pezzi arrivò nelle mani di Luca Fornasier (della Gridalo Forte), il quale decise che un gruppo che era nato l’anno prima (1995) era meritevole di essere promosso. Siamo entrati in contatto con quel giro bellissimo, e noi che eravamo anche messi male tecnicamente a suonare gli strumenti nel giro di pochi anni ci siamo trovati a fare concerti da tutte le parti, sembrava tutto impensabile. Io ero l’unico che aveva un minimo di esperienza musicale perché già avevo avuto un gruppo precedentemente, ma per quanto riguarda gli altri ci siamo scelti gli strumenti in base a quello che ci serviva (tant’è vero che l’ultimo che è rimasto senza strumento ha fatto il fonico…) e dopo due anni ci siamo trovati a fare un disco. Quindi la nostra fortuna è stata quella di legarci a quel mondo, che non è mai stato il nostro mondo, ma un mondo a cui siamo molto legati e molto vicini.
ON: Arrivati a trent’anni di onorata carriera, vorremmo chiederti un bilancio su cosa è riuscita a fare la musica delle Radici nel Cemento nella creazione nelle nuove generazioni e negli strati popolari una coscienza di classe. Che prospettive vi ponete in questo senso in futuro?
G: Questa è un’altra domanda molto difficile, è il “boss finale” di questa intervista… Non ho mai pensato che fossimo una band militante, noi siamo una band schierata politicamente. Sono cambiati gli elementi, ma politicamente siamo sempre stati da una certa parte, anche in maniera talvolta conflittuale. Non siamo un gruppo che nasce coeso, perché i componenti sono cambiati nel tempo: il nostro essere schierati non è come la Banda Bassotti che sono una roccia su questo. Noi abbiamo sfumature diverse al nostro interno, c’è chi proviene da un certo percorso, chi da un altro… c’è varietà all’interno del nostro “mondo ideologico” per cui faccio fatica a ritenerci un gruppo militante nonostante molti di noi singolarmente lo siamo. In questo senso, penso sia molto importante che quello che è stato fatto in quel periodo rimanga e fortunatamente le nuove generazioni, nonostante lo scadimento che c’è stato a livello culturale e politico (la politica anche a sinistra è andata franando…), in parte, seppur minima ma abbastanza combattiva, conservano quello che è successo, conservano quelle idee. Non è un caso che gruppi come il nostro siano ancora quasi tutti sulla cresta dell’onda: ad esempio è stato molto bello veder tornare i 99 Posse con questa botta che hanno ora, è bello che ci sia ancora la Banda Bassotti, gli Arpioni, gli Africa Unite. Tutti questi gruppi esistono ancora non solo perché ci sono i vecchi fan, ma anche perché le nuove generazioni comunque ancora supportano questo genere di cose: penso sia questo quello che abbiamo lasciato noi, nonostante il nostro gruppo non lo annovererei tra quelli più importanti. Forse però pensandoci, il reggae ha consentito a dei messaggi, comunque importanti, di arrivare in maniera più soft, forse a più gente, in maniera meno ruvida e aggressiva, attraverso un veicolo musicale più leggero e accettabile alle orecchie di chi non ama il punk e le cose più dure. Quindi attraverso questo mezzo, abbiamo portato anche “Io ero Sandokan”, e questo secondo me è stato quello che può aver lasciato qualcosa all’oggi.
Riguardo a quello che è andato storto, il periodo degli anni ‘90 che abbiamo vissuto ci ha creato grandi illusioni, grandi aspettative, ma poi socialmente, politicamente e musicalmente è andato un po’ tutto arretrando, però è importante che ancora oggi ci sia questa frontiera di resistenza, che siamo ancora qui a farci due chiacchiere, a vedere tanta gente ad una festa come quella di Avanguardia. Che non è una cosa banale, perché Avanguardia è una festa politica con dei simboli e dei contenuti marcati: il fatto che si riesca ad aggregare in contesti come questi vuol dire che ancora c’è speranza. Forse dobbiamo essere bravi a canalizzare questa speranza in qualcosa di più tangibile, ma ad oggi è tutto molto difficile. Le energie, le risorse ci sono anche, ma è difficile creare ora qualcosa che possa essere un riferimento per tutta la gente più giovane e meno giovane come noi che si è trovata disorientata dopo una serie di batoste. Bisogna essere capaci di trovare la formula, io francamente non ce l’ho.








