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Home›Capitale/lavoro›Primo Maggio, la Giornata internazionale dei Lavoratori e l’attacco alla politica dei padroni

Primo Maggio, la Giornata internazionale dei Lavoratori e l’attacco alla politica dei padroni

Di Redazione
01/05/2021
1956
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In una data come quella odierna è sicuramente utile sviluppare delle considerazioni sulla situazione attuale per fissare punti centrali nel contesto della lotta di classe. A dare il segno dei tempi potrebbe bastare, se si avesse bisogno di una cartina al tornasole, il fatto che storicamente la Giornata internazionale dei Lavoratori nasce e si sviluppa sin dalla fine del XIX secolo in connessione con la rivendicazione per la giornata lavorativa di otto ore e solo una settimana fa si è tenuta a Prato una manifestazione in solidarietà a dei lavoratori del distretto industriale pratese, in particolare dell’azienda Textprint, che portano avanti picchetto permanente e sciopero proprio in opposizione alla protervia padronale che li costringe a lavorare più di dieci ore al giorno senza il riposo settimanale. Se da un lato questa cartina al tornasole restituisce la cifra di un attacco padronale deciso e generalizzato, dall’altro la lotta operaia, la solidarietà e il sostegno ricevuti dicono che una risposta e il contrattacco sono possibili. Ma andiamo con ordine.

La crisi pandemica ha agito da catalizzatore acuendo la crisi capitalistica che attanaglia con l’avvicendarsi di fasi diverse oramai da anni il sistema nel quale viviamo. Da questa dinamica, che trova conferma nel fatto, ad esempio, che molti paesi allo scoppio della pandemia non erano nemmeno tornati ai livelli pre-crisi 2008-2009 o erano appena riusciti a raggiungerli, e comunque sempre al costo di misure pesanti nei confronti di lavoratori e classi popolari, si possono far discendere alcuni dei principali indirizzi che hanno preso forma nel nostro paese dal marzo dello scorso anno.

L’obiettivo di garantire i guadagni e la forza dei padroni nostrani nel contesto della competizione internazionale, tanto più in un momento di acuirsi della crisi, ha guidato le scelte politiche messe in atto.

Si pensi al sistema di deroghe alle chiusure che ha permesso la continuazione dei profitti, anche in settori non essenziali e anche a fronte del forte numero di contagi nei luoghi di lavoro e sui mezzi di trasporto, o ancora alla rapidità con cui si è concesso che i lavoratori potessero andare in smart working senza gli elementi compensativi nella retribuzione che avrebbero dovuto essere corrisposti, e lasciando comunque sempre ai padroni la facoltà di poter decidere se i lavoratori dovessero rischiare di contagiarsi col lavoro in presenza, neppure stabilendo criteri oggettivi per la remotizzazione del lavoro e facendo così diventare il lavoro da remoto un’altra occasione per risparmiare sui costi, magari inserendo, in modo surrettizio, un’impostazione “da cottimo”. A questi esempi si potrebbero aggiungere le gravi ricadute in un mondo del lavoro fortemente precarizzato il cui carattere non è stato affatto messo in discussione dal tanto sbandierato “blocco dei licenziamenti” che, intervenendo appunto in un contesto di precarietà, non ha impedito che venissero persi quasi 900 mila posti di lavoro (qui). Infine si può far riferimento alla mancata messa in discussione dei processi di progressiva privatizzazione dei servizi, dai trasporti alla sanità, che, pur avendo mostrato tutti i propri limiti al costo di migliaia di contagi e vite umane, non sono stati toccati e anzi settori come sanità, trasporti o istruzione quando non sono assenti dalle misure dei governi ne costituiscono sempre il fanalino di coda, basti su tutti l’insieme delle voci di spesa del cosiddetto Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sia nella versione del governo Conte bis che in quella del governo Draghi. Quest’ultimo proprio nella conferma sostanziale del PNNR del governo precedente così come nell’impostazione del decreto Sostegni, che si muove nel solco di uno scostamento di bilancio approvato precedentemente all’insediamento dell’esecutivo a guida Mario Draghi, sta rappresentando una continuità nel senso degli interessi difesi e al contempo un’accelerazione rispetto a prima dei processi di ristrutturazione che la borghesia italiana, in sintonia con i piani più generali del capitalismo monopolistico europeo, vuole mettere in piedi come strategia di uscita dalla crisi (qui).

La pandemia sta infatti assumendo, negli obiettivi della borghesia italiana, i tratti di un’opportunità per orientare l’economia verso nuovi settori industriali utilizzando ingenti finanziamenti pubblici, un’opportunità di ristabilire la redditività del capitale, un’opportunità per liberarsi di aziende o ridimensionare settori poco funzionali alla competizione sui mercati internazionali e per servirsi dello Stato nella sua “funzione di facilitatore dei processi di concentrazione e di centralizzazione che sono tra gli strumenti tipici di ristrutturazione capitalistica in tempo di crisi” (si veda qui).

Il non detto rispetto a questo quadro, di cui abbiamo riportato alcuni tratti per restituirne il carattere generale, è chi dovrà sempre più sostenere il peso delle “opportunità della ristrutturazione”. Lavoratori e classi popolari sono chiamati, mentre vengono bombardati di richiami al sacrificio e afflati unitari in senso patriottardo, a pagare i costi della crisi con la prospettiva che questi stessi costi andranno ad aumentare nel tempo. Ciò che appare necessario, dunque, è un Primo Maggio che esca dalla ritualità e sappia ristabilire dei punti necessari per non subire passivamente l’attacco che i padroni stanno portando avanti. Un attacco che, cogliendo il movimento operaio in una fase di frammentazione e debolezza, può tradursi in un arretramento complessivo e in una cancellazione ulteriore di diritti dei lavoratori. In quest’ottica un percorso di connessione delle lotte e delle vertenze in corso nel paese e di aggregazione delle avanguardie in lotta a prescindere dall’appartenenza sindacale in un fronte unico di classe appare come l’orizzonte da perseguire se si vuole riuscire a dare sostanza ad una risposta efficace. Va da sé che un fronte unico di classe realmente efficace non può che fondarsi sul rifiuto della prospettiva della pace sociale, sul sostegno e la pratica della conflittualità di classe come strumento di lotta. La prospettiva della pacificazione sociale, corollario dell’unità nazionale a cui tanto spesso ci si richiama per accodare le classi subalterne agli interessi del capitale, abbracciata dai sindacati confederali, si è visto che non porta risultati, ma anzi produce arretramenti e rassegnazione fra i lavoratori. Il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici è un esempio plastico della sconfitta che si cela dietro all’orizzonte della pacificazione. Le pratiche di lotta come risposta all’attacco padronale devono tornare ad essere centrali: la concertazione come unico orizzonte di attività finisce con il disperdere le energie, anche generose, dei proletari che si mettono in gioco e non fa che il favore dei padroni (si pensi alla vertenza FIAC in cui il generoso impegno dei lavoratori, imbrigliato nelle pratiche concertative della FIOM non ha avuto lo sperato esito di impedire la delocalizzazione imposta dal gruppo Atlas-Copco). Le ristrutturazioni che interessano e interesseranno il tessuto produttivo del paese rispecchiano la volontà di colpire un settore o un’azienda alla volta sfruttando la frammentazione; la risposta che i lavoratori devono riuscire a dare risiede nel trasportare in tutte le categorie la combattività che alcuni settori negli ultimi anni hanno dimostrato, riuscendo a strappare avanzamenti concreti.

Ricercare una concreta unità fra i lavoratori nel terreno della lotta, rifiutare la retorica della pacificazione e l’orizzonte unico della concertazione come pratica, costruire un fronte unico di classe sono il modo per porre le basi delle battaglie di difesa di diritti e condizioni nei luoghi di lavoro, tasselli centrali per costruire anche la prospettiva di battaglie di avanzamento.

In questo contesto la presenza dei comunisti deve essere costante e muoversi nella direzione di favorire non solo l’unità ma anche l’avanzamento delle rivendicazioni e arrivare ad opporre al programma dei padroni quello della classe operaia. In questo impegno non deve leggersi una rinuncia alla soggettività politica ma anzi l’importanza di edificare nella lotta una forza comunista in connessione con la classe, percepita utile e presente nel conflitto e che riesca, combattendo le visioni opportuniste che finiscono con l’accodare i proletari agli interessi dei padroni, a sferrare l’attacco alla politica dei padroni.

 

Giovanni Brilli

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