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Home›Copertina›Un referendum contro le politiche del PD e le menzogne della destra

Un referendum contro le politiche del PD e le menzogne della destra

Di Domenico Cortese
01/06/2025
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Con un aumento dell’8% dei morti sul lavoro nel 2025 e un crollo di più del 10% dei salari reali rispetto al 2019, certificato dall’ISTAT, la classe operaia italiana sta vivendo una delle fasi di più acuta sofferenza nella storia recente. L’incremento recente degli incidenti sul posto di lavoro è solo uno dei segnali di quanto i padroni si sentano, ormai, costantemente legittimati a ridurre al minimo le tutele sui dipendenti, per via di un potere contrattuale e negoziale sempre più forte che trova la sua origine anche dalla precarizzazione dei lavoratori.

L’avvicinarsi del referendum abrogativo dell’8 e del 9 giugno ha visto far capolino, in questi mesi, opinioni che, per persuadere i lavoratori a non andare a votare, puntano molto sulla presunta efficacia avuta dal Jobs Act – la riforma che il primo quesito vuole depotenziare – nello stabilizzare i rapporti di lavoro. Clamorosa, in questo senso, è stata l’opinione della CISL, che ha definito il Jobs Act una «grande riforma». Abbiamo già, in un altro articolo, analizzato a fondo i quesiti del referendum e chiarito quanto un appoggio ai cinque sì della consultazione debba andare di pari passo con una profonda critica della forma referendaria e dei contenuti delle rivendicazioni avanzate dalla CGIL, in quanto insufficienti nell’ottica di un reale recupero del conflitto di classe, cosa che il sindacato promotore non intende fare. Occorre però smentire ora coloro che, posizionandosi esplicitamente dall’altra parte della barricata rispetto agli interessi dei lavoratori e abbracciando un posizionamento palesemente anti-operaio, giudicano i quesiti un “cavallo di Troia” per far passare delle riforme contro gli interessi della collettività.

Per demistificare queste affermazioni, l’articolo metterà in luce quanto quello che ha innescato la riforma del lavoro di Matteo Renzi sia stata una vera e propria guerra di classe che la borghesia sta vincendo. Questa cosa produce ancora più rabbia se si pensa che negli ultimi anni la produttività del lavoro in Italia, come vedremo, è cresciuta molto più dei salari reali: non è vero che le aziende sono in crisi, la crisi è completamente scaricata sui lavoratori e il plusvalore che i padroni traggono dallo sfruttamento è sempre più sostanzioso. In questa cornice, la propaganda della destra e dei “sovranisti” utilizza anche i classici argomenti nazionalistici per dividere la classe, come convincere i lavoratori italiani che i veri nemici siano i cittadini stranieri, che la colpa dei bassi salari sia dei lavoratori extracomunitari e non delle imprese o come paventare presunti pericoli di “islamizzazione dell’Italia”. Sono queste, purtroppo, le motivazioni più diffusamente usate nei social network per delegittimare il referendum di giugno. 

Per rispondere a questa deriva e a queste provocazioni è utile conoscere i dati reali sulle condizioni contrattuali dei lavoratori italiani e, anche, della maggior parte dei lavoratori stranieri, le cui condizioni di ricattabilità, come abbiamo già spiegato altrove, potranno essere ammorbidite proprio da una vittoria del sì e dal raggiungimento del quorum del quinto quesito referendario.

Gli anni neri del Jobs Act

Il referendum di giugno si può definire una consultazione popolare su quelli che ci hanno presentato come gli effetti positivi del Jobs Act. È una consultazione contro l’auto-rappresentazione del Jobs Act, che fino a qualche tempo fa era al centro, in particolare, della propaganda del Partito Democratico (e che, ancora oggi, è propria di una fetta consistente di questa organizzazione): questa legge avrebbe fatto aumentare i posti di lavoro, i contratti a tempo indeterminato, avrebbe fatto diminuire le assunzioni a termine, avrebbe dato un impulso ai giovani. Il referendum chiede ai cittadini se sono d’accordo con l’abolizione degli articoli peggiori del Jobs Act, quelli che rendono impossibile il reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente, a parte casi eccezionali.

Le politiche del PD inaugurate ai tempi del governo Renzi sono state confermate e portate avanti da tutti i successivi governi del Partito Democratico

Gli effetti delle politiche sul lavoro promosse dal Partito Democratico lo scorso decennio sono state devastanti. Una panoramica dell’evoluzione delle attivazioni di nuovi contratti (senza considerare le cessazioni) avendo come punto di partenza l’introduzione del Jobs Act (2015) fa emergere una chiara divergenza tra le tipologie contrattuali: a partire dal 2016 si amplia notevolmente il numero di contratti a tempo determinato e parasubordinati (apprendistato, stagionali, somministrazione ed intermittenti). I valori assoluti negli anni più recenti sono impressionanti, tanto che nel 2024 sono stati 3,7 milioni i contratti a tempo determinato e 3,3 milioni i contratti parasubordinati. Come termine di riferimento, ricordiamo che il totale delle persone dipendenti a tempo determinato è di 2,8 milioni. Gran parte dei contratti è stata quindi per periodi inferiori all’anno, con un’elevatissima frammentazione delle posizioni lavorative.

I nuovi contratti di assunzione a tempo indeterminato, dal 2015, restano stabili intorno a 1,2 milioni l’anno, con un balzo soltanto nel 2015 stesso, dovuto alla forte riduzione dei contributi sociali introdotta insieme al contratto a tutele crescenti – ovvero solo quando i contributi dovuti dai padroni li pagavamo noi. E i dati dell’Osservatorio sul precariato dell’INPS confermano che i lavoratori sotto i 29 anni sono maggiormente esposti a impieghi con contratti non-standard, mentre i contratti a tempo indeterminato si concentrano nella fascia tra i 30 e i 50 anni. Votare sì ai quesiti del referendum non farà certo sparire le condizioni che hanno condotto a questa situazione (come l’egemonia dei partiti padronali al governo, la debolezza del movimento operaio, il mercato unico europeo, e così via) ma potrà essere uno spartiacque che contribuisce a una presa di coscienza generale dei lavoratori.

Proseguendo con i numeri, vediamo che il peso dei dipendenti a tempo indeterminato full-time sul totale dei dipendenti è diminuito dal 78% del 2004 al 72% del 2024; in particolare nei primi cinque anni di applicazione del Jobs Act si è passati dal 71% del 2014 al 67,9% del 2019, continuando la caduta già avviata in precedenza; solo nel 2020, quando le chiusure provocate dalla pandemia hanno ridimensionato il numero di dipendenti a termine, e poi ancora dal 2023 si registra una ripresa. Di contro, le quote dei dipendenti a tempo determinato – sia part-time che full-time – aumentano in modo rilevante proprio tra il 2014 e il 2019, per poi stabilizzarsi. Se consideriamo tutto il lavoro non-standard – lavoratori a tempo determinato (full-time e part-time) e lavoratori a tempo indeterminato part-time – si passa dal 22% del 2004 al 28% del 2024. Quasi il 30% degli occupati dipendenti in Italia è a termine o part-time. Sembra evidente che, se si escludono i mesi nei quali i datori di lavoro hanno usufruito del “regalo” dei contributi pagati dalla collettività, il minor potere negoziale dei lavoratori dipendenti ha influito negativamente proprio sulla stabilità del contratto di lavoro. D’altronde, questo minor potere negoziale ha condotto anche a una particolare debolezza salariale, che si è accentuata a partire dal 2015 e che con l’acuirsi del carovita ha preso il volo: dal 2019 il potere d’acquisto dei salari italiani è calato del 10,5%, secondo i nuovi dati dell’ISTAT.

L’emergenza salariale

Il crollo dei salari reali in Italia può essere considerato, dunque, una diretta conseguenza di questa diffusa precarietà contrattuale dei lavoratori, e ha raggiunto delle misure che sono riconosciute ormai anche da istituzioni internazionali. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, a partire dal 2008, tra i paesi a economia avanzata del G20, le perdite di salario reale sono state dell’8,7% in Italia, del 6,3% in Giappone, del 4,5% in Spagna e del 2,5% nel Regno Unito. Inoltre, i dati evidenziano come il recente aumento del costo della vita abbia avuto un impatto negativo su tutti i paesi a economia avanzata del G20, con un effetto particolarmente severo in Italia negli anni 2022 e 2023. Nel 2024, i salari reali di lavoratrici e lavoratori italiani sono cresciuti solo del 2,3%, per via dei rinnovi dei contratti collettivi, ma questi aumenti non sono stati sufficienti a bilanciare il calo del 3,2 e del 3,3% rispettivamente nel 2023 e 2022. Le perdite salariali subite nel 2022 e 2023 dalle lavoratrici e lavoratori in Italia sono state addirittura superiori alla media di quelle dei paesi a economia avanzata del G20.

Se, inoltre, nei decenni scorsi il pretesto elaborato dai padroni per abbassare i salari era la “scarsa produttività” (come se fosse colpa dei lavoratori se il capitale non investe in innovazione) a partire dal 2022 la produttività del lavoro in Italia è addirittura cresciuta più dei salari reali. Anche nel resto dei paesi ad alto reddito, d’altronde, la produttività del lavoro è cresciuta più rapidamente dei salari reali (rispettivamente del 29 e del 15%). L’attacco ai salari è globale e a tutto tondo. Eppure, molti lavoratori percepiscono, sulla scorta della narrazione delle destre, come i loro primi nemici i lavoratori stranieri e non gli sfruttatori. Anche per questo potrebbe essere che molti di essi si asterranno al referendum di giugno, nonostante questo potrebbe avere l’effetto di aumentare il potere contrattuale dei dipendenti.

Il falso pericolo degli stranieri naturalizzati

Per controbattere alla tesi secondo cui “la responsabilità del mancato aumento dei salari è soprattutto dei lavoratori stranieri” basterebbe capovolgere l’assurda premessa secondo cui una persona sfruttata si faccia sfruttare per amore di subire soprusi. Ovviamente, il motivo dei redditi da lavoro più bassi degli stranieri proviene dalla volontà di profitto degli sfruttatori (che la riuscita del referendum aiuterebbe ad affrontare) e dalla minore organizzazione, scolarizzazione e integrazione nel tessuto culturale del Paese dei lavoratori extracomunitari. Tutti elementi che la mancanza della cittadinanza italiana certamente accentua. Nonostante l’aumento della presenza straniera nel mercato del lavoro italiano, infatti, gli immigrati sono segregati in alcune aree specifiche del mercato del lavoro, dove è più alto il rischio di rimanere intrappolati in occupazioni precarie, a bassa qualifica e basso salario. La distribuzione complessiva dei lavoratori immigrati per settore economico indica che il 40% degli immigrati sono occupati nel settore dell’assistenza e di cura, e che questa percentuale sale al 65% tra le donne immigrate. Inoltre, la sostanziale esclusione dall’impiego pubblico — rafforzata anche dal mancato riconoscimento delle qualifiche professionali e delle credenziali educative — sbilancia la composizione occupazionale degli immigrati, rispetto a quella dei nazionali, verso il lavoro nel settore privato. Quindi anche questo rafforza il “dumping salariale”.

Proprio un'acquisizione più facile della cittadinanza italiana permetterebbe ai lavoratori stranieri di opporsi maggiormente ai trattamenti disumani a cui oggi sono sottoposti

Proprio un’acquisizione più facile della cittadinanza italiana permetterebbe ai lavoratori stranieri di opporsi maggiormente ai trattamenti disumani a cui oggi sono sottoposti

A questo si aggiunge, come abbiamo detto altre volte, il problema della ricattabilità del lavoratore che, anno dopo anno, è costretto ad accettare qualsiasi tipo di condizioni lavorative allo scopo di vedersi confermato il proprio permesso di soggiorno. Non solo, infatti, l’ingresso di un lavoratore straniero dall’estero è soggetto a previa chiamata nominativa da parte del datore di lavoro italiano, riuscendo a rientrare nel numero degli accessi vincolato dalle quote annuali autorizzate volta per volta dal governo; ma il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno sono rigidamente vincolati, rispettivamente, alla sottoscrizione e alla vigenza di un contratto di lavoro: una saldatura, peraltro, estremamente anacronistica proprio perché il mercato del lavoro è divenuto, in questo quarto di secolo, più flessibile e precario per tutti. In ogni caso, la possibilità, per molti lavoratori extracomunitari, di emanciparsi attraverso la cittadinanza italiana da questo ricatto occupazionale garantirebbe loro la possibilità di pretendere salari maggiori, ad esempio tramite la sindacalizzazione, venendo a mancare l’arma di ricatto da parte del padrone. Questo effetto sarebbe, peraltro, automatico anche per i figli minorenni di chi otterrebbe la cittadinanza e che, spesso, seppur nati in Italia, devono attendere la maggiore età soltanto per inoltrare la domanda di naturalizzazione.

Affrontiamo, infine, la tesi secondo la quale vada facilitata la richiesta di cittadinanza agli immigrati perché “avrebbero generalmente una cultura inferiore alla nostra, sono più violenti e più maschilisti”. Questa tesi esplicitamente eurocentrica e razzista viene spesso sostenuta attraverso statistiche sugli abusi sessuali che sarebbero, in proporzione, commessi più da stranieri.

Il problema in questo caso è che, come aveva tempo fa dichiarato Giorgio Alleva, ex presidente dell’ISTAT, il comportamento di denuncia delle italiane risulta cambiare notevolmente se l’autore della violenza è straniero: la quota di vittime di stupro da un autore straniero che dichiara di aver sporto denuncia è infatti oltre 6 volte più alta rispetto al caso in cui l’autore è italiano, e per il tentato stupro, la differenza è ancora più marcata, con la quota di donne che denunciano, nel caso di un autore straniero, che è dieci volte più alta rispetto al caso in cui l’autore sia un italiano. Inoltre, ormai da anni la sociologia ha stabilito una forte correlazione tra disuguaglianza e criminalità che è maggiore per quanto riguarda i furti, le rapine e gli omicidi nel nord Italia, mentre è maggiore per quanto riguarda i reati associativi nel sud: è proprio la povertà a rendere un uomo criminale. Se gli stranieri commettono reati è spesso conseguenza della loro povertà, non del loro essere stranieri. Se l’obiettivo è frenare i comportamenti incivili si dovrebbe quindi lottare per l’unità della classe operaia e per l’incremento del salario diretto e indiretto, a prescindere dalla nazionalità dei lavoratori, non certo attuare una separazione culturale e ideologica tra frazioni della classe. L’accesso alla cittadinanza, lungi dal fomentare automaticamente la criminalità, faciliterebbe proprio l’organizzazione dei lavoratori di nazionalità straniera.

Ma ciò che comunicano questi dati e queste ricerche è che, in altre parole, non è vero che gli stranieri sono più violenti e maschilisti in quanto stranieri, semplicemente gli italiani hanno più potere negoziale per celare questi comportamenti, sia dietro la maschera della legalità (al furtarello dello straniero fatto per sopravvivere si contrappone il furto del salario eseguito costantemente dal padrone nei confronti dei dipendenti tramite CCNL con inquadramenti “da fame”) sia dietro il ricatto. Si pensi alla dipendente sfruttata e in nero in un ristorante o un bar, che subisce abusi dal titolare, e a quanto possa trovare difficile denunciare.

Conclusioni

Votare sì ai cinque quesiti del referendum dell’8 e del 9 giugno è utile, in primo luogo, a produrre le prime crepe al consenso politico quasi universale, da parte dei vecchi governi e di quello attuale, di cui, a dispetto della tardiva e strumentale operazione propagandistica del Partito Democratico degli ultimi mesi, hanno goduto il Jobs Act e le politiche di precarizzazione del lavoro negli ultimi anni. I dati non lasciano margine di interpretazione: tutte le promesse che gli esponenti dei partiti borghesi negli anni avevano fatto riguardo alle proprietà “taumaturgiche” della flessibilità lavorativa si sono rivelate per quello che erano, ovvero propaganda padronale finalizzata a garantire un maggior potere ricattatorio alla classe sfruttatrice, promossa sia dai partiti di centro-destra o di centro-sinistra. Il sì al quinto quesito, poi, non ha solo a che vedere con la cittadinanza come “diritto civile”, ma di fatto permette la rivendicazione dei propri diritti sociali.1 Al netto dei pregiudizi etnici e razziali malcelati che diversi militanti ed esponenti di destra diffondono, il maggiore effetto di un accesso più facile alla cittadinanza per la maggior parte degli stranieri sarà proprio quello di favorire la loro dignità lavorativa e, dunque, la dignità di tutti i lavoratori.

1 – Sulla questione diritti civili e diritti sociali, e il legame che li unisce, si veda qua.

TagCGILcittadinanzadirittiimmigrazioneJobs Actlavoratorilavoroprecarietàreferendumsfruttamentosindacato
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Domenico Cortese

Domenico Cortese, nato a Tropea nel 1987, dottore di ricerca in Filosofia e Storia. Gestisce il blog Il Capitale Asociale su FB e IG, è membro del comitato centrale del Fronte Comunista, in cui milita dalla sua fondazione. Collabora con L'Ordine Nuovo su argomenti di economia e attualità.

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