Il 6 agosto 1945 per la prima volta nella storia veniva sganciata una bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima. Tre giorni dopo, anche la città di Nagasaki divenne bersaglio di un secondo bombardamento atomico.
A 80 anni da quegli eventi, è necessario riflettere sull’impatto delle armi atomiche, sulla produzione su larga scala degli armamenti nucleari e sui concreti rischi del loro possibile impiego in un quadro di generalizzazione della guerra imperialista su scala globale.
Partendo da un’analisi storica, si può cercare di trarre conclusioni che riguardano l’attualità e il futuro.
ANTEFATTI STORICI
Lo sviluppo e l’utilizzo delle prime bombe atomiche
Durante la Seconda Guerra Mondiale, in risposta ai progressi che la Germania hitleriana stava registrando nel campo dell’energia nucleare, gli USA, con il supporto di Regno Unito e Canada, avviarono il “progetto Manhattan”: un programma di ricerca volto non solo a utilizzare il nucleare come fonte di energia, ma anche a produrre “super-bombe” più distruttive di qualsiasi cosa allora conosciuta. Durante la primavera del 1945 nei laboratori di Los Alamos, nel Nuovo Messico, furono prodotte le prime bombe atomiche, in un numero di 4 unità.

L’esplosione di The Gadget, la prima detonazione di un’arma nucleare della storia, il 16 luglio 1945
La prima di esse, a cui fu attribuito il nome in codice The Gadget, fu utilizzata durante il test Trinity (16 luglio 1945), che costituisce la prima detonazione di un’arma nucleare della storia. L’esplosione espose alla contaminazione da radiazioni una popolazione di quasi mezzo milione di persone residenti in un raggio di 150 miglia dal luogo della deflagrazione per responsabilità del governo statunitense.
Gli esiti del test furono comunicati al presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, lo stesso 16 luglio, durante la sua partecipazione alla conferenza di Potsdam. Da allora, il governo e l’esercito degli USA iniziarono i preparativi per l’utilizzo dell’arma. Si decise di utilizzare la bomba contro il Giappone su città e obiettivi civili, secondo la dottrina militare americana, al fine di massimizzare l’effetto distruttivo, di colpire psicologicamente il nemico e di mostrare al mondo intero la potenza della macchina bellica statunitense, come abbiamo spiegato anche altrove. Del resto, gli USA e la Gran Bretagna si erano già ripetutamente macchiati di bombardamenti a tappeto sulla popolazione civile in Italia, Germania e nello stesso Giappone, provocando centinaia di migliaia di vittime.

La devastazione di Hiroshima alcuni mesi dopo il bombardamento atomico
La mattina del 6 agosto, dopo aver scelto come bersaglio Hiroshima invece di Kokura, che quel giorno era sovrastata da intense nubi, il bombardiere Enola Gay sganciò sul centro della città la prima bomba atomica, Little Boy, uccidend tra le 70.000 e le 80.000 persone. L’avvelenamento e le necrosi da radiazioni provocarono malattie e morti successive al bombardamento per circa il 20% di coloro che erano sopravvissuti all’esplosione iniziale. Alla fine del 1945, il numero di vittime ammontava a circa 140.000 persone.
La mattina del 9 agosto, dopo che l’Unione Sovietica, in ottemperanza agli accordi con gli USA e gli alleati, aveva dichiarato guerra al Giappone (in solo una settimana, quella successiva all’attacco, l’URSS sconfiggerà l’armata del Guangdong in Manciuria, che contava un milione di uomini) , l’esercito statunitense utilizzò la seconda bomba. L’ordigno, chiamato Fat Man, doveva ancora una volta essere sganciato sulla città di Kokura, ma a causa del meteo avverso si decise di utilizzarlo sul secondo obiettivo, la città di Nagasaki. Anche questa città era però coperta da nubi: lo sgancio della bomba avvenne quindi “erroneamente” a Uramaki, quartiere situato quasi 4 km a nord-ovest del punto stabilito. Questo fece sì che il bilancio delle vittime di Nagasaki fosse inferiore a quello di Hiroshima. Secondo le stime le persone uccise all’istante sarebbero tra le 35.000 e le 75.000 persone, mentre il numero complessivo delle vittime viene valutato intorno alle 80.000 persone, incluse quelle esposte alle radiazioni nei mesi seguenti.

La nube atomica successiva al bombardamento di Nagasaki
Il duplice bombardamento atomico determinò comunque un numero catastrofico di vittime, fu un vero e proprio crimine contro l’umanità da parte dell’imperialismo statunitense e segnò le vite di oltre 650.000 persone sopravvissute agli effetti delle bombe (chiamati in Giappone hibakusha), molte delle quali svilupparono malattie connesse con le radiazioni.
Infine, non è noto quale sia stato il destino del quarto ordigno prodotto nell’ambito del progetto Manhattan, che avrebbe dovuto essere un secondo Fat Man.
L’uso politico dell’arma atomica da parte degli USA
Da subito, gli Stati Uniti non si limitarono a considerare l’uso militare dell’arma atomica, ma valutarono i vantaggi politici che avrebbero potuto trarre dal suo possesso. Fin dall’avvio del progetto Manhattan, la dirigenza statunitense tenne all’oscuro del programma atomico l’Unione Sovietica, allora alleata, e rifiutò ogni forma di cooperazione scientifica o diplomatica sul nucleare con l’URSS, temendo la concorrenza strategica post-bellica con lo Stato sovietico. La prima informazione esplicita all’URSS fu comunicata da Truman a Stalin a Potsdam il 24 luglio 1945, facendo riferimento all’esistenza nell’arsenale degli Stati Uniti di un’arma di «inusuale potenza distruttiva», nonostante i sovietici fossero già segretamente a conoscenza dell’esistenza della bomba tramite il proprio servizio di intelligence.
Truman concepì la bomba atomica come un’arma di terrore di massa, capace di garantire agli USA l’egemonia mondiale. Insieme ai suoi alleati, il presidente statunitense non ebbe mai dubbi sul suo utilizzo:
«Ritenevo la bomba un’arma di guerra e non ho mai dubitato che sarebbe stata utilizzata. Quando ne ho parlato a Churchill, mi disse senza esitazione che era a favore dell’utilizzo della bomba nucleare.»
Le durissime conseguenze dei bombardamenti atomici sulla popolazione civile giapponese e il terrore che di lì a poco si sarebbe instaurato nel mondo hanno portato molti studiosi e scienziati a interrogarsi sulla reale necessità di utilizzare simili armi di distruzione di massa. È stato spesso affermato, anche dagli alti comandi militari statunitensi, che l’impiego delle bombe atomiche non fosse giustificato da una reale necessità bellica e che il Giappone fosse prossimo alla capitolazione e già stesse preparandosi alla resa incondizionata. L’imperialismo statunitense utilizzava quindi l’arma atomica per minacciare gli avversari e gli alleati e imporre la propria egemonia su entrambi.

«Dopo che il presidente Harry S. Truman ricevette notizia del successo del test Trinity, il suo bisogno dell’aiuto dell’Unione Sovietica nella guerra contro il Giappone diminuì notevolmente. Il leader sovietico, Giuseppe Stalin, aveva promesso di entrare in guerra contro il Giappone entro il 15 agosto. Truman e i suoi consiglieri non erano più sicuri di volere tale aiuto. Se l’uso della bomba atomica avesse reso possibile la vittoria senza un’invasione, allora accettare l’aiuto sovietico avrebbe solo significato invitarli a partecipare alle discussioni riguardanti il destino del Giappone nel dopoguerra.» (fonte osti.gov, U.S. Department of Energy – Office of History and Heritage Resources)
Alcuni storici hanno formulato teorie che inquadrano l’uso delle armi nucleari da parte degli USA prevalentemente, se non esclusivamente, nel quadro della preparazione alla futura contrapposizione aperta con l’Unione Sovietica al termine del conflitto mondiale, tanto da considerare i bombardamenti contro il Giappone (soprattutto Nagasaki) come il primo atto della Guerra Fredda.
In particolare, gli obiettivi degli Stati Uniti erano:
- intimidire l’URSS con una dimostrazione di forza e acquisire nuovi strumenti di pressione diplomatica;
- impedire che, con il rispetto degli accordi tra gli alleati, i sovietici giocassero un ruolo determinante nella resa giapponese, con la conquista della Manciuria da parte dell’Armata Rossa, che avrebbe aperto la possibilità di uno sbarco sull’isola di Hokkaidō.
Anche nell’immediato dopoguerra, il monopolio dell’arma atomica fu utilizzato dagli Stati Uniti come strumento di potere politico, non solo militare. Il monopolio nucleare fu al centro della strategia statunitense per dissuadere, intimidire e contenere l’espansione del socialismo nei primi anni della Guerra Fredda. Infatti, gli USA sfruttarono il proprio vantaggio legato al monopolio nucleare come leva diplomatica e come minaccia implicita per il contenimento dell’influenza sovietica in Europa e Asia; proprio il ricorso americano alla minaccia atomica come strumento negoziale portò gli storici a coniare l’espressione “diplomazia atomica”.
Gli USA elaborarono almeno tre piani di bombardamento nucleare dell’URSS: il piano Broiler (1947) prevedeva che ventiquattro città sovietiche fossero distrutte con bombe atomiche, e sarebbe stato integrato dai piani Half Moon (1948) e Off Tackle (1949), che arrivarono a progettare la distruzione di centoquattro città sovietiche. Vi furono persino teatri in cui l’apparato militare statunitense valutò espressamente il ricorso a nuovi bombardamenti atomici, tra cui la crisi tra USA e URSS in Iran (1946), il blocco di Berlino da parte sovietica (1948) e la guerra di Corea (1950).
Non furono solo gli Stati Uniti a ipotizzare l’utilizzo della bomba atomica contro l’URSS. Anche Winston Churchill, sul finire della Seconda Guerra Mondiale, propose agli USA l’utilizzo dell’arma contro i sovietici. Il feldmaresciallo inglese Alan Brooke riportò come il primo ministro britannico, subito dopo aver appreso della fabbricazione delle bombe, «si sentiva già in grado di radere al suolo i centri industriali della Russia». A Potsdam, inoltre, Churchill «incalzava gli americani perché impiegassero la bomba come un mezzo di pressione politica sui russi».
La situazione internazionale cambiò radicalmente con l’acquisizione della tecnologia nucleare da parte dell’URSS.
Il programma atomico sovietico e il movimento per la pace
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Unione Sovietica emerse come una delle principali potenze, sia sul piano politico che militare. Tuttavia, il mondo entrava rapidamente in una nuova fase di tensione, con l’imperialismo statunitense, forte del monopolio dell’arma atomica e del terrore da essa generato, intenzionato a perseguire una strategia egemonica su scala globale.
Nel giugno 1946, gli Stati Uniti presentarono all’ONU il cosiddetto Piano Baruch, che proponeva la creazione di un’autorità internazionale per il controllo dell’energia atomica. Tuttavia, dietro questa proposta si celava la pretesa che l’URSS rinunciasse allo sviluppo di un arsenale atomico senza alcuna garanzia sull’eliminazione delle armi già possedute dagli USA, che così avrebbero mantenuto il loro vantaggio. L’Unione Sovietica, non opponendosi al disarmo in sé, denunciò il piano, dietro la cui retorica sul disarmo era in realtà celata la pretesa di una resa sovietica unilaterale.
In risposta a questi piani, tra il 1947 e il 1948, l’URSS in diverse occasioni all’ONU avanzò proposte di interdizione dell’uso delle armi nucleari e di distruzione degli arsenali esistenti, fino alla loro abolizione completa. Queste proposte furono sistematicamente respinte dagli Stati Uniti e dai loro alleati, intenzionati a mantenere la propria superiorità atomica.

Abram Ioffe, Abram Alichanov e Igor’ Kurčatov, eminenti fisici che contribuirono al programma atomico sovietico
Di fronte a questa minaccia, l’Unione Sovietica, guidata dal PCUS e da Stalin, comprese la necessità di garantire la sicurezza e la sopravvivenza del paese socialista attraverso il raggiungimento della parità strategica nel campo nucleare. La ricerca in questo settore non era per l’URSS una corsa agli armamenti in chiave aggressiva, ma una tappa nella più ampia strategia di difesa del socialismo in patria e nelle democrazie popolari nate in Europa orientale. L’utilizzo terroristico da parte delle potenze capitalistiche della bomba atomica, divenuta simbolo e strumento del ricatto imperialista, doveva essere neutralizzato.
Già prima della fine della guerra, fisici sovietici come Igor’ Kurčatov avevano avviato ricerche teoriche sul potenziale dell’energia nucleare. Tuttavia, fu dopo il 1945 che il programma venne potenziato in modo decisivo. A differenza del modello statunitense, che aveva integrato privati e multinazionali belliche, il programma atomico sovietico fu un’impresa collettiva e centralizzata, in cui scienza e Stato socialista cooperarono.
L’Unione Sovietica beneficiò, inoltre, del contributo di numerosi scienziati antifascisti tedeschi trasferiti in URSS dopo la guerra, così come di studiosi che misero a disposizione informazioni vitali acquisite in Occidente. In particolare, il lavoro di fisici come Klaus Fuchs e altri sostenitori del socialismo all’interno del progetto Manhattan contribuì a colmare il divario tecnico tra USA e URSS.
Il risultato di questo impegno fu la realizzazione della prima bomba atomica sovietica, testata con successo il 29 agosto 1949 nel poligono di Semipalatinsk, in Kazakistan. La detonazione dell’ordigno, denominato RDS-1, rappresentò la rottura del monopolio nucleare dell’imperialismo e ristabilì l’equilibrio strategico su scala globale, dotando il socialismo di uno strumento di dissuasione. L’acquisizione della bomba atomica da parte dell’URSS non aveva dunque intenti aggressivi, ma fu una risposta in contrasto alla politica del terrore atomico instaurata dalle potenze capitalistiche. Non a caso, anche dopo il raggiungimento della parità strategica e lo sviluppo delle tecnologie atomiche, l’Unione Sovietica sostenne convintamente il disarmo nucleare su base di reciprocità reale e verificabile attraverso il controllo internazionale.
La volontà sovietica di operare contro la guerra imperialista si declinò, parallelamente al raggiungimento della parità strategica, nella promozione in tutto il mondo del movimento per la pace. La “lotta per la pace” divenne in quegli anni il pilastro centrale della strategia del movimento comunista internazionale. Proprio grazie al sostegno organizzativo dell’URSS, nell’agosto 1948 si tenne a Breslavia il Congresso internazionale degli intellettuali per la pace e nel dicembre dello stesso anno a Budapest fu organizzato il congresso della Federazione democratica internazionale delle donne, anch’esso sul tema della pace. Il movimento internazionale dei Partigiani della Pace nacque ufficialmente nell’aprile del 1949, con il Congresso di Parigi, per iniziativa dell’Unione Sovietica.

Apertura del congresso mondiale dei Partigiani della Pace, Parigi, 20 aprile 1949
Questo movimento, che anche nel nome rivendicava una continuità con la lotta di liberazione dal fascismo, tracciava un parallelismo tra il conflitto da poco terminato e la politica guerrafondaia, anticomunista e antipopolare che gli USA avrebbero voluto imporre. I Partigiani della Pace esaltavano il ruolo dell’Unione Sovietica alla testa delle “forze della pace”, dando risalto alle iniziative diplomatiche a favore della distensione internazionale, del controllo degli armamenti, della risoluzione pacifica della questione tedesca e dell’indipendenza dei popoli sottoposti a dominio coloniale.
Sempre grazie agli sforzi dell’Unione Sovietica, nel 1950 (ossia dopo l’acquisizione sovietica della tecnologia nucleare) fu fondato a Stoccolma il Consiglio Mondiale per la Pace, tra i cui principali obiettivi vi era la messa al bando della bomba atomica, definita dal Consiglio uno «strumento di intimidazione e sterminio di massa delle popolazioni». L’appello di Stoccolma divenne un plebiscito mondiale: 519 milioni di persone in tutto il mondo firmarono per proibire la bomba atomica.
Nel novembre 1952 gli USA svilupparono la bomba all’idrogeno, evoluzione ancora più distruttiva della bomba atomica in quanto, a differenza della sua progenitrice, era basata sulla fusione nucleare anziché sulla fissione. L’URSS acquisì la medesima tecnologia nell’agosto 1953, raggiungendo ancora una volta la parità strategica e riducendo la superiorità militare statunitense. Ciononostante, i sovietici continuarono a rilanciare le proprie proposte per un accordo di riduzione degli armamenti e divieto dell’uso dell’arma atomica.
Il 5 marzo 1953, con la morte di Stalin fu gradualmente ridimensionato il ruolo del movimento contro la guerra imperialista sotto il profilo ideologico e mobilitativo, specialmente nella sua componente più militante, adeguandolo alla nuova politica sovietica di coesistenza pacifica tra socialismo e capitalismo.
La seconda metà del XX secolo
Nonostante l’atteggiamento di apertura dell’URSS, il blocco socialista continuò ad essere oggetto di provocazioni da parte dell’imperialismo: ne è un esempio la crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962 (anche nota come “crisi di ottobre”). Gli Stati Uniti installarono missili balistici sempre più in prossimità dei confini dell’Unione Sovietica. In particolare, almeno 45 testate nucleari statunitensi furono dislocate in Italia e Turchia; per riequilibrare la pressione strategica, i sovietici reagirono a questa minaccia avviando il posizionamento di missili con testata nucleare a Cuba in funzione di deterrenza. L’URSS intendeva inoltre garantire la sicurezza di Cuba, che si era in quegli anni in maniera determinante avvicinata ai sovietici e che subiva da tempo provocazioni da parte statunitense, culminate nel tentativo di invasione della Baia dei Porci.
Il 22 ottobre, il presidente statunitense Kennedy annunciò la cosiddetta “quarantena” navale, impedendo ai sovietici di portare nuovi armamenti nell’isola e dichiarando che un attacco da Cuba sarebbe stato considerato un attacco dell’URSS. Solo dopo lunghi negoziati USA e URSS giunsero al compromesso: abbandono del progetto di installazione di basi missilistiche sovietiche a Cuba, ritiro (temporaneo) degli arsenali atomici da Italia e Turchia, unitamente all’impegno statunitense a non invadere Cuba.

Leonid Brežnev e Jimmy Carter stipulano gli accordi SALT II, Vienna, 18 giugno 1979
Negli anni successivi, anche sull’onda dell’effetto emotivo provocato dai fatti di Cuba, Stati Uniti e Unione Sovietica arrivarono alla stipula di alcuni trattati: tra questi il Trattato sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari (1963), il Trattato di non proliferazione nucleare (1968), il Trattato anti missili balistici (1972), gli Accordi SALT (1972 e 1979) e l’Accordo START I (1991). Questi trattati, che dimostrano il ruolo progressivo sempre ricoperto dall’Unione Sovietica, limitavano, in parte, la produzione e l’utilizzo delle armi atomiche, arrivando a prevedere la riduzione progressiva degli arsenali negli anni ‘80. Tuttavia, al termine della Guerra Fredda le due maggiori potenze possedevano decine di migliaia di testate nucleari, a cui si aggiungevano quelle in dotazione alle altre potenze capitalistiche (Regno Unito, Francia, India, Pakistan e Israele, senza considerare il Sudafrica, che scelse spontaneamente di smantellare il proprio arsenale) e alla Cina, che nel frattempo aveva avviato il proprio percorso di regressione dal socialismo al capitalismo. Con lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991, le testate nucleari sovietiche passarono in mano alla Russia capitalistica.
IMPLICAZIONI ODIERNE DELL’ARMA ATOMICA
Quantità e distribuzione delle armi atomiche nel mondo
Come già accennato poc’anzi, al termine della Guerra Fredda la situazione della presenza e del dispiegamento delle armi atomiche a livello globale era estremamente complessa. Se il numero record di testate nucleari sul pianeta era stato raggiunto attorno al 1986, da allora l’applicazione dei vari trattati ha portato il numero delle armi atomiche a diminuire progressivamente.
Tuttavia, anche oggi il numero di testate nucleari presenti nel mondo raggiunge cifre preoccupanti: uno studio dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI) stimava in 12.241 unità le armi atomiche presenti nel mondo, di cui circa l’87% in mano a Stati Uniti e Russia. L’uso anche solo di una parte di esse sarebbe sufficiente a distruggere completamente il pianeta. Riportiamo qui di seguito la tabella elaborata dal SIPRI per il 2025:
Paese | Testate schierate | Testate stoccate | Scorte militari | Testate ritirate | Totale inventario |
Stati Uniti | 1 770 | 1 930 | 3 700 | 1 477 | 5 177 |
Russia | 1 718 | 2 591 | 4 309 | 1 150 | 5 459 |
Francia | 280 | 10 | 290 | – | 290 |
Regno Unito | 120 | 105 | 225 | – | 225 |
Cina | 24 | 576 | 600 | – | 600 |
India | – | 180 | 180 | – | 180 |
Pakistan | – | 170 | 170 | – | 170 |
Israele | – | 90 | 90 | – | 90 |
Corea del Nord | – | 50 | 50 | – | 50 |
Totale | 3 912 | 5 702 | 9 614 | 2 627 | 12 241 |
Secondo la nomenclatura utilizzata dal SIPRI, le testate schierate sono le armi montate su missili o collocate presso basi con forze operative; le testate stoccate sono le armi non schierate, ma parte dell’arsenale militare attivo; le scorte militari sono la somma di testate schierate e stoccate, pronte quindi per uso militare; le testate ritirate sono le armi fuori uso, in attesa di smantellamento, mentre il totale inventario è la totalità delle armi, ossia la somma delle scorte militari e delle testate ritirate.
La presenza di queste armi mette a serio rischio i popoli., Non solo l’aumento dei conflitti imperialisti potrebbe in futuro rendere più concreta la possibilità di un loro utilizzo, ma esiste anche il pericolo che le basi militari che ospitano le testate possano diventare un bersaglio di attacchi nemici o di ritorsioni. Ciò espone le popolazioni al rischio di subire in maniera ancora più drammatica le conseguenze dei conflitti. Bisogna considerare, inoltre, il fatto che molte delle armi atomiche non sono schierate solamente nei paesi che ne sono nominalmente detentori, ma anche in quelli alleati delle principali potenze.

Mappa delle armi atomiche statunitensi dislocate in Europa
Ne è un esempio l’Europa, in virtù del concetto, elaborato dalla NATO, di “condivisione nucleare”: esso prevede la fornitura, agli Stati membri sprovvisti di un proprio arsenale nucleare, di armi atomiche da parte di uno dei membri che invece le detiene, al fine di fornire addestramento all’utilizzo di queste armi in caso di guerra. In altre parole, alcuni paesi europei ospitano bombe atomiche e addestrano i propri piloti al loro utilizzo in guerra, ma il controllo finale su di loro resta agli Stati Uniti, che più hanno tratto beneficio da questa politica. In particolare, i paesi europei aderenti alla NATO e coinvolti dalla condivisione nucleare con gli USA sono Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia, ma armi atomiche statunitensi si trovavano nel 2024 anche nel Regno Unito. Conseguenza diretta della “condivisione” è la possibilità che un paese si trovi coinvolto in una guerra nucleare contro la propria volontà.
Secondo le fonti pubbliche, sono 12 le basi militari in Europa che ospitano le bombe statunitensi. Facendo riferimento al nostro paese, le stime valutano in 35 unità le armi atomiche in Italia, suddivise tra le due basi di Ghedi e Aviano. La presenza di queste armi, indipendentemente da chi ne detiene la proprietà, fa sì che anche il nostro paese, pur essendo nominalmente privo di arsenale nucleare, contribuisca ad alimentare la strategia di tensione internazionale legata alle armi atomiche.
Le capacità di produzione di nuove bombe
Come detto, gli accordi stipulati sul finire dello scorso secolo hanno fatto sì che la produzione su larga scala di ordigni da parte delle principali potenze rallentasse e che al contempo si procedesse allo smantellamento delle armi esistenti. Tuttavia, ciò non deve indurre a pensare che le principali potenze imperialiste non possano, in via ipotetica, avviare nuovamente la loro produzione, anche in tempi rapidi.

Si stima che la Cina possa arrivare a possedere 1500 testate nucleari entro il 2035
Ad esempio, per quanto riguarda la Cina, che già oggi sta accrescendo il proprio arsenale producendo nuove bombe, si stima una possibile capacità produttiva di 100 bombe nucleari all’anno, presumendo il raggiungimento delle 1500 testate entro il 2035. A differenza della Cina, gli Stati Uniti e la Russia stanno puntando sull’ammodernamento del rispettivo arsenale, piuttosto che sull’aumento quantitativo.
Tuttavia, sono proprio questi paesi a esprimere la maggiore capacità potenziale di produzione di nuove bombe. Infatti, Russia e USA sono i due paesi maggiormente ricchi di materiale fissile per uso militare, ossia dei due elementi utilizzati per la produzione di bombe nucleari: l’uranio altamente arricchito (HEU, o Uranio-235) e il plutonio separato (Plutonio-239). All’inizio del 2022, la scorta globale di HEU ammontava a circa 1.250 tonnellate, e di questo quantitativo circa l’88% era già utilizzato in armamenti nucleari o era disponibile a esserlo. Il restante 12% potrebbe apparire come una quantità risibile; tuttavia, queste 150 tonnellate di HEU sarebbero sufficienti a produrre oltre 10.000 bombe atomiche simili a quella sganciata su Hiroshima. La Russia possiede il 54,4% dell’HEU globale, seguita dagli Stati Uniti con il 39%. Allo stesso modo, seppur le quantità disponibili siano inferiori, si stima che bastino appena 4 chilogrammi di plutonio per produrre un ordigno nucleare.
Attualmente, India e Pakistan (e probabilmente Israele e Corea del Nord) sono gli unici Stati che continuano a produrre materiale fissile per scopi militari. Stati Uniti, Regno Unito, Russia e Francia hanno ufficialmente dichiarato la cessazione della produzione di materiale fissile a fini bellici. Tuttavia, non è da escludere che, in uno scenario di ipotetico ma non impossibile inasprimento della guerra, alcuni o tutti gli stati attualmente dotati di armamenti nucleari possano ricominciare ad arricchire l’uranio o a produrre plutonio separato.
Le bombe nucleari “tattiche” e il loro possibile utilizzo
Quando si pensa alle armi atomiche, si immaginano generalmente ordigni simili a quelli utilizzati nel 1945 contro i giapponesi e in grado di distruggere intere città, se non di più. Tuttavia, bisogna tener presente che esistono diverse tipologie di bombe nucleari, ciascuna con delle proprie peculiarità in termini di potenza rilasciata, raggio d’azione e modalità di utilizzo.
La prima grande differenziazione è quella tra armi nucleari strategiche e tattiche: le prime sono generalmente dotate di lunga gittata, sprigionano elevata potenza (oltre 100 chilotoni), sono concepite per distruggere obiettivi su vasta scala (come intere città o basi nemiche) e sono trasportate su missili balistici intercontinentali, sottomarini nucleari o bombardieri a lungo raggio; le seconde hanno gittata più corta, sono dotate di minore potenza (fino a 50 chilotoni), sono concepite per essere utilizzate sul campo di battaglia e vengono sganciate da aeroplani o attraverso missili a corto raggio.

La bomba all’idrogeno statunitense B61-12, dislocata in Italia ad Aviano e Ghedi
In altri termini, le armi nucleari strategiche sono così potenti da provocare la distruzione totale del nemico, ma sono vere e proprie armi di sterminio e di conseguenza il loro utilizzo è meno sostenibile per i governi in termini politici ed etici; al contrario, le armi nucleari tattiche sono molto meno distruttive e possono quindi essere utilizzate in maniera “mirata”, colpendo solamente singoli obiettivi militari senza necessariamente comportare l’annichilimento di intere popolazioni.
Bisogna comunque notare che persino le bombe tattiche meno potenti rimangono armi di distruzione di massa in grado di provocare numeri elevatissimi di vittime. Per comprenderlo, esistono alcuni simulatori (ad esempio Nukemap) in grado di fornire stime dei danni provocati da un’ipotetica esplosione nucleare in diverse parti del mondo: se la più debole bomba atomica mai prodotta (la statunitense “Davy Crockett”, con una potenza di 0,02 chilotoni) detonasse al centro di Milano, il numero dei morti supererebbe le 2800 unità.
Delle 3912 testate nucleari attualmente schierate nel mondo, si stima che circa 3812 siano strategiche, mentre circa 100 sarebbero tattiche. Tuttavia, la Russia non ha mai dichiarato ufficialmente la consistenza del proprio arsenale di bombe tattiche, e alcune fonti ipotizzano un numero compreso tra 1000 e 2500 bombe nucleari tattiche russe.
In Italia sono dislocate le bombe statunitensi B61-12, testate nucleari tattiche che particolarmente si prestano ad essere utilizzate contro obiettivi sotterranei data la loro elevata capacità di penetrazione nel terreno e la cui potenza è regolabile elettronicamente tra 0,3 e 50 chilotoni (basti pensare che le bombe di Hiroshima e Nagasaki sprigionarono rispettivamente 16 e 21 chilotoni).
La minor potenza sprigionata dalle armi nucleari tattiche non deve indurre a sottovalutarne la pericolosità, sia perché, come già detto, anche le più piccole tra di esse sono in grado di realizzare veri e propri massacri, sia perché lo stesso concetto di “tatticità” spalanca le porte al loro sdoganamento, meno “compromettente” dal punto di vista della tenuta interna e dell’impatto etico e diplomatico per governi ed eserciti. La possibilità di utilizzare sul campo di battaglia in un teatro di guerra bombe tattiche rappresenta un concreto pericolo di escalation, con le controparti di un potenziale conflitto che si sentirebbero autorizzate a utilizzarne altre in risposta a quelle sganciate dal nemico.
“No First Use”, deterrenza e distruzione mutua assicurata
Non tutti i paesi detentori di un arsenale atomico attribuiscono le stesse finalità al possesso di armamenti nucleari. A tal proposito, risulta utile introdurre un concetto utilizzato nei contesti di politica internazionale, ossia la politica di “No First Use” (NFU), vale a dire l’impegno di uno Stato a non usare per primo le armi nucleari, ma solo in risposta a un attacco nucleare subito.

“Noi diciamo no alla follia nucleare”, manifesto sovietico del 1983
Nel 1982 l’URSS fece ufficialmente propria la politica di NFU, ma fin dalla produzione delle prime armi atomiche i sovietici avevano rigettato la concezione di questi armamenti come strumento di sottomissione degli altri popoli o come mezzo per sferrare un attacco ai propri nemici; al contrario, gli Stati Uniti non hanno mai rifiutato l’idea dell’arsenale atomico come mezzo offensivo, e hanno fatto della strategia del “primo colpo nucleare” (first strike in inglese) un pilastro costitutivo della propria dottrina politico-militare. Ciò trova dimostrazione non solo nel fatto che furono gli unici a farne uso, ma anche nella continua corsa allo sviluppo di nuove e sempre più micidiali armi per terrorizzare quanti si opponevano al loro tentativo di egemonia globale. L’URSS, invece, si limitò sempre a inseguire gli avanzamenti nella tecnologia bellica apportati dagli USA per ristabilire la parità strategica.
Oggi, tra le potenze dotate di armi nucleari, solamente la Cina e l’India adottano ufficialmente politiche di NFU, mentre tutte le altre si riservano il diritto di utilizzare per prime la bomba atomica, seppur solo in “casi estremi”, un concetto estremamente ambiguo e opinabile. Se, come detto, gli Stati Uniti sono una potenza che non mise mai in discussione l’uso offensivo delle armi nucleari, anche la Russia ha recentemente rinnegato la politica di NFU promossa dell’Unione Sovietica e dalla stessa Federazione Russa negli anni precedenti: una recente modifica alle politiche atomiche del paese ha sancito che Mosca potrebbe lanciare un attacco nucleare se fosse oggetto di un’aggressione (anche con armi convenzionali) da parte di un paese non nucleare che riceve il sostegno di uno stato nucleare.
Nonostante solo pochi paesi dotati dell’arma atomica rifiutino espressamente il suo ruolo offensivo, tutti ne giustificano il possesso con la motivazione predominante della deterrenza nucleare, ossia il principio secondo cui un paese che possiede un arsenale atomico può dissuadere altri dall’attaccarlo, per paura di una risposta devastante. Ad essa è associato il concetto di “distruzione mutua assicurata” (MAD), una teoria secondo la quale, in virtù dell’estremo proliferare delle tecnologie atomiche, in un conflitto nucleare tra due potenze entrambi i Paesi sarebbero distrutti, anche se colpissero per primi; ciò determinerebbe una situazione di stallo in cui nessuna potenza ha interesse a usare per prima le armi nucleari, poiché ciò comporterebbe comunque la sua distruzione certa.
Il rischio concreto di una guerra termonucleare
Se la logica della deterrenza e della MAD afferma che “armandosi fino ai denti” le potenze sarebbero in grado di mantenere la pace e prevenire una guerra termonucleare, ciò non può affatto essere considerato una garanzia di sicurezza a favore dei popoli del mondo.
La tensione internazionale crescente ha aumentato infatti il numero di conflitti regionali, e la proliferazione fa sì che contemporaneamente cresca il numero dei paesi detentori di armamenti nucleari coinvolti direttamente nelle varie guerre in corso: ne sono esempi non solo la guerra in Ucraina, dove Russia, USA, Regno Unito e Francia sono apertamente coinvolti, ma anche il conflitto tra India e Pakistan (attualmente apparentemente sopito), la guerra in Medio Oriente, in cui le armi atomiche sono possedute da uno stato genocida come Israele, o le tensioni nella penisola coreana, dove gli USA e i loro alleati regionali continuano a praticare un assedio militare ed economico contro la Repubblica Democratica Popolare di Corea, dotatasi di un proprio arsenale nucleare e alleata della Russia.
Inoltre, secondo il SIPRI, l’epoca della riduzione del numero di armi nucleari nel mondo, che era iniziata con la fine della Guerra Fredda, sta giungendo al termine con una tendenza chiara verso la crescita e l’ammodernamento degli arsenali nucleari, un’evocazione dell’uso dell’arma atomica sempre più frequente e aggressiva e l’abbandono dei trattati sul controllo degli armamenti. La scadenza di alcuni trattati (tra cui il New START, stipulato nel 2010 da Stati Uniti e Russia e che si concluderà nel 2026), sul cui rinnovo nessun negoziato è in corso, renderà nei prossimi anni possibile un aumento del numero di testate strategiche schierate su missili.

Il pericolo che i popoli corrono fa sì che lo scenario di una possibile guerra termonucleare non debba essere sottovalutato
Ancora secondo il SIPRI, le nuove tecnologie emergenti, come intelligenza artificiale, difesa missilistica, tecnologie quantistiche e capacità cibernetiche, stanno influendo sulla deterrenza e accrescendo l’instabilità. In particolare, il crescente ruolo dell’intelligenza artificiale nei sistemi di comando nucleari, particolarmente per quanto riguarda la possibilità di automazione nelle decisioni di lancio, rappresenterebbe una svolta pericolosa. Secondo l’Istituto, qualsiasi passo verso un controllo completo dell’arsenale nucleare da parte dell’IA potrebbe condurre l’umanità verso una catastrofe.
La combinazione di queste caratteristiche dei tempi presenti fa sì che alcuni esperti e ufficiali di intelligence affermino che siamo oggi più che mai vicini alla guerra nucleare. Persino secondo il cosiddetto “orologio dell’apocalisse”, un’iniziativa che dal 1947 tenta di misurare il pericolo di un’ipotetica fine del mondo con particolare riferimento ai rischi legati al nucleare, non si è mai stati così prossimi alla catastrofe atomica.
I rischi per l’umanità intera sono ovviamente altissimi: secondo un esperimento dell’Università di Princeton (New Jersey), in caso di un’ipotetica escalation nucleare tra Russia e NATO, in poche ore ci sarebbero almeno 90 milioni di morti in diverse zone d’Europa e del mondo.
Il pericolo che i popoli corrono per il dilagare della guerra imperialista e per la presenza di una quantità elevatissima di testate fa sì che lo scenario di una possibile guerra termonucleare non debba essere sottovalutato.
CONCLUSIONI
La lezione di Hiroshima e Nagasaki, ossia dei crimini che il capitale è disposto a commettere pur di raggiungere i propri scopi, non dev’essere dimenticata. Tantopiù in un’epoca caratterizzata pienamente dalla guerra imperialista e dall’aumento costante dell’aggressività da parte degli stati capitalistici, è necessario comprendere appieno gli interessi di classe che si nascondono dietro i piani di riarmo e dietro le politiche belliciste promosse da ciascun paese.

Spezzone contro la guerra del Fronte Comunista (FC) e del Fronte della Gioventù Comunista (FGC)
La storia insegna altresì a rigettare le teorie secondo le quali il sistema sarebbe riformabile rendendolo maggiormente “umano”, senza praticare un netto rovesciamento della classe dominante. Il capitalismo è infatti un sistema che strutturalmente conduce alla guerra generalizzata per affrontare le crisi cicliche in cui ristagna. La tendenza alla guerra, che va di pari passo con il rapido progresso scientifico e tecnologico che il capitalismo usa a fini bellici anziché per il soddisfacimento dei bisogni umani, può condurre a scenari sempre peggiori. La corsa alle armi avviene inoltre a scapito dei proletari e dei popoli, che in tutto il mondo subiscono drastici tagli alla spesa sociale a favore delle spese militari; mentre la gran parte dell’umanità soffre disoccupazione, fame, devastazione ambientale e privazione dei diritti, la deviazione delle risorse scientifiche e tecnologiche verso fini militari rappresenta un ostacolo al raggiungimento del benessere per miliardi di persone nel mondo.
La stessa parola d’ordine del disarmo è oggi assolutamente necessaria, ma insufficiente a garantire una pace duratura in virtù delle capacità del capitale di riarmarsi in tempi estremamente rapidi quando necessario. La sola smobilitazione degli arsenali (atomici o convenzionali) oggi esistenti non sarà mai quindi garanzia di sicurezza per l’umanità. A essa deve necessariamente essere affiancata la lotta rivoluzionaria per il rovesciamento alla radice del sistema capitalistico e delle sue logiche, per un cambio di sistema che porti, con il socialismo-comunismo, a una gestione di risorse, produzione e distribuzione orientata al benessere collettivo dei popoli, e non più alle logiche private di profitto che oggi determinano le politiche dei paesi e le loro guerre.
Solo i popoli, con la loro lotta irriducibile, possono imporre la pace, fermando i piani di guerra della borghesia, e creare una società nuova in cui orrori come quello di Hiroshima e Nagasaki non avvengano mai più.