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Cosa si muove nel settore bancario e perché

Di Domenico Moro
30/07/2020
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Uno degli avvenimenti più importanti all’interno del capitalismo italiano, nella sua fase più recente, è l’acquisizione di Ubi, la terza banca italiana per capitalizzazione di borsa, da parte della prima banca, Intesa San Paolo.

Uno degli avvenimenti più importanti all’interno del capitalismo italiano, nella sua fase più recente, è l’acquisizione di UBI, la terza banca italiana per capitalizzazione di borsa, da parte della prima banca, Intesa Sanpaolo. Questa aggregazione rafforzerà ulteriormente il carattere oligopolista del credito, concentrando ulteriormente il potere bancario in poche mani. Nasce, in questo modo, uno dei più grandi colossi bancari europei, con un obiettivo di utile non inferiore a 5 miliardi nel 2022 e con quote di mercato in Italia di circa il 20% in tutti i settori di attività.

Come abbiamo avuto modo, riprendendo Lenin, di osservare in un precedente articolo sull’imperialismo italiano, la centralizzazione del capitale, sotto forma della fusione o della acquisizione tra imprese diverse, che arriva fino alla costituzione di monopoli e oligopoli, è una tendenza tipica che si manifesta di nuovo in modo marcato nel capitalismo contemporaneo. Ciò vale, a maggior ragione, per il credito, in quanto la banca è un elemento fondamentale dell’accumulazione del capitale in generale, e, in particolare, nella sua fase imperialistica, nella quale si realizza l’integrazione tra impresa industriale e banca. L’accumulazione di capitale da prestito viene segnalata già da Marx come una forma di accumulazione, strettamente legata (una “filiazione”), ma distinta dall’accumulazione reale: “Lo sviluppo del sistema creditizio e l’enorme concentrazione degli affari riguardanti i prestiti monetari nelle mani di grandi banche, deve dunque affrettare per sé stessa l’accumulazione di capitale da prestito, come una forma distinta dall’accumulazione reale. Questo rapido sviluppo del capitale da prestito è quindi un risultato dell’accumulazione reale, essendo questa una conseguenza dello sviluppo del processo della riproduzione (…). Una accumulazione di questo capitale monetario, distinto dall’accumulazione reale, sebbene ne sia una filiazione, si verifica, se noi consideriamo soltanto i capitalisti monetari, i banchieri, ecc., per se stessi, come accumulazione di questa classe particolare di capitalisti. Ed essa si deve accrescere a misura che si estende il sistema creditizio che accompagna lo sviluppo reale del processo di riproduzione.[1]”

Dunque, l’estensione del sistema creditizio è strettamente e dialetticamente collegata ai processi dell’economia reale. Per questo quello tra UBI e Banca Intesa non sarà l’unico caso di aggregazione bancaria. Del resto UBI stessa era il prodotto di precedenti aggregazioni svoltesi negli ultimi anni e all’interno del suo azionariato sono presenti numerose famiglie e imprese importanti delle aree del bresciano e del bergamasco, zone ad alta densità industriale, ma anche di altre realtà fuori dalla Lombardia, come le Marche e la Calabria. Prossimamente, quindi, assisteremo a un incremento delle aggregazioni. Questo per due ragioni. In primo luogo, perché il mercato delle merci e di capitali è sempre più ampio e concorrenziale, e c’è necessità di banche che agiscano a un livello più internazionale, per lo meno europeo, facilitando i processi di esportazione di merci e soprattutto di capitale e finanziando le fusioni e acquisizioni transfrontaliere, tra imprese e banche di stati diversi, in direzione della costruzione di campioni europei. A questo proposito sono significative le parole di Giuseppe Lucchini, importante imprenditore bergamasco, socio di UBI Banca e tra i primi a aderire alla operazione di acquisizione da parte di Intesa: “Non possiamo rimanere legati al concetto di territorio al quale eravamo abituati trent’anni fa, quando le aziende producevano per vendere in Lombardia o in Piemonte o in Veneto, oggi per avere competitività è necessario pensare almeno a una dimensione di mercato europea, bisogna avere una visione più ampia, più aperta”[2]

In secondo luogo, le aggregazioni aumenteranno, perché la crisi ha come conseguenza proprio l’aumento dei processi di centralizzazione. Secondo un recente studio della società di consulenza Oliver Wyman, le banche europee nel triennio 2020-2022 dovranno far fronte, a seguito della crisi, a 400 miliardi di perdite sui crediti. Le banche dovrebbero assorbire meglio queste perdite rispetto al periodo 2012-2014, grazie a una loro maggiore patrimonializzazione: il 70% delle banche europee censite dall’EBA (European Banking Autority) dovrebbe arrivare a fine 2022 a un CET1 ratio (rapporto tra il capitale ordinario versato e le attività ponderate per il rischio) superiore al 12%.  Più preoccupante, sempre secondo il rapporto di Oliver Wyman, sono le prospettive di profitto: solo il 17% delle banche arriverà al 2022 con un ritorno sul capitale (ROE) superiore all’8%, mentre delle altre banche circa la metà resterà in un limbo di sopravvivenza (capitale sufficiente ma redditività al minimo) e l’altra metà si troverà in difficoltà.

La scarsa profittabilità riguarderà tutto il settore bancario europeo e anche l’Italia. Qui lo smaltimento dei crediti inesigibili (NPL) aveva fatto grandi passi avanti, ma non come negli altri paesi. La previsione è che in Italia ai 135 milairdi di euro di NPL del 2019 nel triennio 2020-2022 si aggiungeranno altri 45-55 miliardi. I ricavi aggregati del settore bancario in Europa, invece, caleranno da 566 miliardi nel 2019 a 385 miliardi nel 2020 per poi risalire a 450 miliardi nel 2021 e a 535 nel 2022, rimanendo quindi a un livello inferiore a quello precedente allo scoppio della crisi. Quali sono le soluzioni a questo calo della redditività? Oliver Wymen ne indica tre: il taglio dei costi, la rivisitazione dell’attività in chiave digitale (ripensando il ruolo delle filiali e integrando lo smart working a detrimento dei lavoratori e dei loro diritti) e soprattutto l’aggregazione tra banche. La divaricazione di risultati, tra banche in condizioni peggiori e banche in condizioni migliori, faciliterà i processi di aggregazione da parte dei più forti nei confronti dei più deboli. In prima battuta ci sarà un consolidamento nazionale, dove saranno inevitabili nuove aggregazioni dopo quella tra Banca Intesa e UBI. Ma al contempo i processi che viaggiano a livello europeo, in particolare la costruzione dell’Unione bancaria e del mercato unico dei capitali, favoriranno le aggregazioni a livello transforntaliero, tra banche di paesi diversi.

Il processo di centralizzazione e di concentrazione in poche mani del potere bancario, da una parte, rende più forte il capitale, ma, dall’altra parte, costituisce una delle basi materiali per la socializzazione dei mezzi di produzione come evidenziava già Marx: “Abbiamo visto che il profitto medio del capitalista singolo, di ogni capitale individuale, non è determinato dal plusvalore che questo capitale si appropria di prima mano, ma dalla quantità di plusvalore complessivo che il capitale complessivo si appropria e da cui ogni capitale individuale, unicamente come parte proporzionale del capitale complessivo trae i suoi dividendi. Questo carattere sociale del capitale è reso possibile e attuato integralmente dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario. Dall’altro lato questo sistema va oltre e mette a disposizione dei capitalisti commerciali e industriali tutto il capitale disponibile e anche potenziale della società (…) così che né chi dà a prestito né chi impiega questo capitale ne è proprietario o produttore. Esso elimina con ciò il carattere privato del capitale e contiene in sè, ma solamente in sé, la soppressione del capitale stesso. Con il sistema bancario la ripartizione del capitale è sottratta alle mani dei privati e degli usurai, come una funzione sociale. Ma la banca e il credito in pari tempo divengono il mezzo più potente per spingere la produzione capitalistica al di là dei suoi limiti, e uno dei veicoli più efficaci della crisi e della speculazione”[3]

L’acquisizione di UBI, banca radicata e legata a specifici territori e a una realtà di piccole e medie imprese, da parte di una banca di livello europeo come Banca Intesa rappresenta, in definitiva, anche uno spostamento di quote di potere economico e una subordinazione del capitale nazionale al grande capitale multinazionale a base italiana, che si sta attrezzando al confronto/scontro europeo che si accentuerà con la realizzazione dell’Unione bancaria e del mercato unico europeo.

[1] K. Marx, Il capitale, Libro III, Editori Riuniti, Roma 1980,  pp.590-591.

[2] M. Meneghello, “Intervista a Giuseppe Lucchini. Esito di buon senso, serve una visione più larga”, Il Sole 24 ore, 29 luglio 2020.

[3] K. Marx, op. cit., pp.704-705.

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Domenico Moro

Ricercatore Istat, si interessa di statistiche economiche. Ha scritto numerosi volumi, tradotti nelle più importanti lingue europee, tra cui “La gabbia dell’euro, perché uscirne è internazionalista e di sinistra”, “Globalizzazione e decadenza industriale”, “La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico”, “Il gruppo Bilderberg, l’élite del potere mondiale”, “Nuovo Compendio del capitale”. Scrive anche su riviste italiane ed estere. Da sempre militante nel movimento comunista italiano, oggi dirige la rivista Laboratorio 21.

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