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Israele come Stato fascista. Un approfondimento

Di Domenico Cortese
19/06/2025
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Soprattutto nei mesi più recenti, questo giornale ha ampiamente trattato le relazioni dello Stato d’Israele e dell’ideologia sionista con il governo italiano, con i rapporti di forza in Medio Oriente e con la propaganda mediatica. Questo ha fatto scaturire una visione di questo paese come un alleato indispensabile, in quell’area, per le forze del blocco UE-NATO, un alleato che non può essere sacrificato sull’altare dei diritti umani. Il sostegno alle pratiche colonialiste, genocide e di pulizia etnica di Tel Aviv da parte dei governi di tutto il mondo deve essere letto sotto questa luce. In questa sede, a completamento delle nostre precedenti trattazioni, ci occuperemo nello specifico, invece, della natura dell’apparato statale israeliano e del modello di società a cui esso fa riferimento. Dimostreremo, quindi, quanto il sionismo e le criminali politiche razziste e di sterminio che esso pratica e giustifica sul piano ideologico con un preteso “diritto all’autodifesa” sono una particolare forma di fascismo.

Per fare questo, ci baseremo su una definizione scientifica di fascismo, secondo la quale ciò che differenzia il fascismo dalle democrazie borghesi nella sostanza non sono solo superficialmente i metodi “terroristici”, ma

  1. l’occupazione totale di tutti gli spazi politici;
  2. la soppressione dei diritti democratici;
  3. il controllo spionistico totale sui cittadini da parte dello Stato;
  4. l’organizzazione corporativa dell’economia e della società al servizio del capitale finanziario;
  5. l’organizzazione paramilitare della piccola borghesia e del sottoproletariato, che svolgono il lavoro illegale e violento per conto dello Stato e costituiscono lo zoccolo duro del consenso al regime.

Israele può essere considerato uno stato fascista perché, sebbene non tutti questi elementi siano ancora sviluppati alla perfezione nello Stato ebraico, essi stanno assumendo un’estensione sempre più preminente. Inoltre, il potere in Israele è di fatto riuscito a irreggimentare la maggior parte della piccola borghesia nella difesa armata, e non solo, degli obiettivi economico-politici a cui mira (attraverso, ad esempio, il movimento dei coloni). A tutto questo aggiungeremo, come caratteristici di un regime fascista, gli elementi della discriminazione religiosa e del suprematismo.

Sulla base di queste linee, mostreremo nel dettaglio come funziona il regime fascista di Israele, osservando quanto ognuno dei fenomeni sopra elencati sia presente all’interno della società israeliana.

Occupazione totale di tutti gli spazi politici

Storicamente, un regime di occupazione come quello che da decenni rappresenta Israele non è mai potuto andare a braccetto con la democrazia borghese intesa in senso sostanziale (come “pari opportunità per tutti i cittadini di far valere le proprie istanze”) e, neppure, in senso formale (come, ad esempio, “separazione dei poteri” o “presenza di elezioni competitive”). Non solo perché l’occupazione cancella i diritti degli abitanti delle zone occupate, ma anche perché talmente profondi e delicati sono, tradizionalmente, gli interessi del capitale nazionale e straniero legati ai territori colonizzati che ogni forma di dissenso verso questo stato di cose viene trattato, dallo Stato borghese, come un attacco alla “sicurezza della nazione”. In Israele, oggi, la dittatura formale è un pericolo da tenere in seria considerazione, ma ancora più realistico è il sostegno sostanziale della popolazione al progetto coloniale e di pulizia etnica, che va ovviamente oltre le tendenze iper-reazionarie del governo in carica. Da un lato, in Parlamento da tempo si stanno discutendo delle leggi liberticide con le quali Netanyahu sfida i responsabili del potere giudiziario e i vertici dello Shin Bet, il servizio d’intelligence nazionale, mentre la coalizione di governo è solida: conta 68 deputati sui 120 della Knesset e include partiti e movimenti fondamentalisti che teorizzano la discriminazione e l’espulsione degli arabi. Dall’altro lato, il Paese si trova in un processo di radicale spostamento a destra, non solo a livello istituzionale. Oltre il 70% degli israeliani è contrario alla nascita di uno Stato palestinese, è d’accordo con l’espulsione della popolazione araba e vorrebbe la totale annessione dei territori occupati. Solo il 15% si definisce liberale. Questo non significa che le politiche di occupazione e genocidio precedenti al governo Netanyahu fossero “meno gravi”: indica invece il sempre maggior coinvolgimento delle masse israeliane nel progetto della sua classe dominante, nonostante quest’ultima utilizzi le prime come carne da cannone.

Netanyahu in questi anni ha, inoltre, condotto una campagna brutale, persino violenta, contro le istituzioni israeliane e i loro rappresentanti, un’azione impossibile da separare dal suo processo in corso per corruzione. Si è, ad esempio, impegnato a rimuovere il Procuratore Generale, Gali Baharav-Miara. Il 23 maggio 2024, il governo ha approvato una mozione di sfiducia nei suoi confronti, provocando una lettera tagliente del Procuratore Generale in cui si affermava che il governo Netanyahu si era azzardato a porsi «al di sopra della legge, ad agire senza pesi e contrappesi, anche nei momenti più delicati». In cima alla lista nera di Netanyahu c’è, poi, il funzionario dell’intelligence, Ronen Bar, il capo dello Shin Bet che accusa esplicitamente di essere stato a conoscenza dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. È la magistratura, tuttavia, ad aver attirato molto l’attenzione del governo, già da prima degli attacchi del 7 ottobre. Gran parte del 2023 è stato dedicato al tentativo di compromettere l’influenza e l’indipendenza della Corte Suprema. Alcune leggi per promuovere tale processo erano state approvate nel luglio 2023, ma la Corte Suprema le ha successivamente annullate nel gennaio 2024. La legge in questione aveva eliminato i mezzi della Corte per controllare il potere esecutivo invalidando le decisioni governative ritenute “irragionevoli”. Secondo l’ex Presidente della Corte Suprema, Esther Hayut, la legge era “estrema e irregolare”, segnando un allontanamento «dai principi fondamentali della Knesset, e pertanto doveva essere annullata». Sebbene sia riduttivo, inoltre, considerare Israele come una “colonia americana”, la tenuta del governo Netanyahu è stata fino ad oggi garantita persino da interferenze palesi da parte degli USA: il governo israeliano, infatti, si regge anche sul supporto internazionale, tanto più che oggi Trump è una figura guida della destra internazionale, e per questo è ulteriormente lontano da una forma di controllo popolare sulle istituzioni.

In Israele non vi è ancora un’occupazione completa di tutti gli spazi politici e istituzionali da parte del partito di governo, ma il rafforzamento dell’egemonia politica di Netanyahu sulla società civile sta conducendo gradualmente all’indebolimento dei diversi “contrappesi democratici”. Inoltre nonostante rimangano ancora spazi di opposizione formale nel campo borghese (e ovviamente non ci riferiamo qui agli eroici sforzi del PC di Israele), questi non garantiscono una discontinuità dal progetto coloniale che coinvolge la società nel suo complesso.

Soppressione dei diritti democratici

La maggior parte delle valutazioni sul declino democratico di Israele tende a concentrarsi sul processo penale per corruzione a Netanyahu, ancora in corso, e sugli sforzi del suo governo per privare la magistratura del suo potere di esaminare e limitare le azioni governative. Ma esistono tendenze a lungo termine, più significative, come iniziative legislative illiberali, limitazioni alle organizzazioni della società civile e l’erosione dei capisaldi della democrazia liberale-borghese. Ad esempio, nel 2018 il parlamento del Paese, la Knesset, ha approvato una legge che dichiara Israele lo Stato nazionale del popolo ebraico, omettendo il principio di uguaglianza civica per il 21% della popolazione non ebraica.

Preoccupante è anche la crescente quota di popolazione, soprattutto tra i giovani, che sostiene queste politiche di esclusione. Secondo un rapporto del 2016, quasi il 40% degli israeliani di età compresa tra i 15 e i 24 anni riteneva che i diritti politici dovessero essere negati ai cittadini arabi. Un altro esempio è la Legge sulla Trasparenza delle ONG del 2016, che impone alle organizzazioni per i diritti umani e di altro tipo che ricevono metà dei loro finanziamenti dall’estero di rivelare le fonti, aumentando l’onere amministrativo per queste organizzazioni: altrove, come in Georgia o in Russia, questo tipo di leggi ha suscitato notevoli critiche e proteste da parte dei governi dell’UE, è evidente l’ipocrisia.

Una legge approvata nell’aprile 2024 consente invece al governo di sospendere le attività di un’agenzia di stampa straniera in Israele se il Primo Ministro o il Ministro delle Comunicazioni ritengono che rappresenti una minaccia per la sicurezza. Utilizzando questa legge, Israele ha chiuso Al Jazeera, emittente televisiva con sede in Qatar, nel maggio 2024. E quando l’Associated Press ha fornito servizi media ad Al Jazeera, il governo israeliano ha sequestrato le sue attrezzature. Sebbene le attrezzature siano state restituite in seguito a un’ampia protesta, anche da parte della Casa Bianca, ciò dimostra l’impatto di questa legge sulla libertà di stampa. Una proposta di legge di giugno 2024 imporrebbe il licenziamento dei professori universitari che presumibilmente incitano o sostengono il “terrorismo”. Il disegno di legge imporrebbe una pena senza processo per un reato vagamente definito e senza un giusto processo e i critici sostengono che potrebbe essere utilizzato per mettere a tacere l’opposizione. Infatti, in Israele, viene strumentalmente considerata “terrorismo” ogni forma di lotta da parte delle popolazioni arabe israeliane o dei palestinesi nei territori occupati.

Per quanto riguarda, invece, la detenzione amministrativa (una misura di restrizione della libertà individuale generalmente applicata, senza processo giudiziale, per ragioni di “sicurezza”, una sorta di carcere preventivo rinnovabile indefinitamente di sei mesi in sei mesi), essa era stata abrogata nel 1948 ma venne poi riesumata dagli israeliani che, a partire dal 1970, ne hanno fatto largo e sistematico uso nei confronti dei palestinesi. Il regime giuridico della detenzione amministrativa è stato modificato più volte nel corso degli anni, ma le modifiche non hanno intaccato i caratteri essenziali di questo strumento di privazione della libertà di carattere “preventivo”. Una privazione di libertà attuata con garanzie procedurali ridottissime (assenza di conoscibilità pubblica, prove che possono essere mantenute segrete, reiterazione della misura detentiva alla sua scadenza) e suscettibile di essere sottoposto ad un controllo giurisdizionale di carattere “successivo” estremamente limitato, in quanto i giudici sono chiamati a controllare atti amministrativi discrezionali, con tutti i limiti di questo tipo di procedura.

La riduzione di margini di democrazia è presente, naturalmente, anche all’interno dell’esercito israeliano (Forze di Difesa Israeliane, IDF). Nell’ultimo anno sono apparsi articoli che esprimono aspre critiche nei confronti dello stesso IDF, anche da parte di ex generali e ufficiali. Critiche che avrebbero potuto essere di più se non fossero state oggetto dell’intervento dell’esercito che, per il potere conferitogli dalla legge, avrebbe censurato il doppio degli articoli su temi relativi alla “sicurezza” nell’ultimo anno, secondo l’ultima inchiesta di Local Call e +972 Magazine. Per la giornalista Meron Rapoport, tuttavia, data la scala senza precedenti della guerra in corso, questi atti di censura non preoccupano quanto invece l’autocensura e il silenzio di tanti suoi colleghi: «la paura di ritorsioni è ciò che sta influenzando di più la libertà di stampa». A questi esempi ed episodi di restrizioni della libertà democratica si aggiunge il fatto che parte della vita civica israeliana è, al momento, letteralmente in pausa. Le università hanno posticipato l’inizio dell’anno scolastico, i tribunali non fanno udienze, tranne che per casi urgenti come gli arresti. Molte persone detenute per sospetto tradimento potrebbero non essere mai incriminate, ma i tribunali stanno infliggendo punizioni efficaci arrestandole. La polizia sta vietando tutte le manifestazioni la cui rivendicazione è il cessate il fuoco. Con le discriminazioni e il blocco della macchina della giustizia, oltre che della pubblica istruzione, Israele incrementa il suo deficit democratico anche in senso lato come assenza di pari opportunità per i cittadini – qui, addirittura, a prescindere dalla religione e dall’etnia. Tra le ultime misure repressive prese dall’esecutivo di Tel Aviv vi è, inoltre, il divieto ai cittadini israeliani di lasciare il Paese, una misura propagandata come misura di “sicurezza” ma che tradisce la volontà di nascondere l’emorragia di popolazione che lo Stato ebraico ha subito dal 2023 e, secondo alcuni esperti, persino l’intenzione di usare i civili come scudi umani.

Infine, spendiamo qualche parola sulla vera e propria repressione politica che ha colpito i partiti di classe. Il governo israeliano ha intensificato la repressione contro il Partito Comunista di Israele e la coalizione di cui fa parte, il Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza (Hadash). Alle denunce e agli arresti di militanti e dirigenti, alle violenze da parte di polizia e coloni, alle perquisizioni e agli assalti alle sezioni del partito, nei mesi scorsi, dopo diversi interrogatori subiti dalla segretaria locale, Reem Hazan, ha fatto seguito la chiusura, da parte della polizia israeliana, della sede del partito a Haifa, prima che avesse luogo la proiezione di un film palestinese sulle operazioni militari dell’esercito israeliano in Cisgiordania. Infine, è da segnalare la recente gravissima espulsione di un parlamentare del Partito Comunista di Israele a seguito di un suo intervento contro il genocidio.

Controllo spionistico totale sui cittadini da parte dello Stato

Sono molte le inchieste che hanno messo in luce, di recente, pratiche di spionaggio del governo israeliano ai danni non solo dei presunti “pericoli per la sicurezza” ma degli stessi cittadini israeliani, oltre che dei palestinesi. Secondo quanto rivelato da un’inchiesta del Washington Post, in collaborazione con Breaking the silence, un’organizzazione di ex soldati israeliani che ha lo scopo di raccogliere le testimonianze dei militari attivi nei territori occupati, si chiamerebbe Blue Wolf il sistema di riconoscimento facciale usato dall’esercito israeliano nei territori occupati della Cisgiordania, che contiene foto e informazioni di praticamente tutti i cittadini palestinesi.

Un’inchiesta firmata ancora dai giornalisti di Local Call, +972 Magazine e The Guardian ha rivelato che l’esercito israeliano sta sviluppando da metà dello scorso anno un modello linguistico simile a ChatGPT. Invece di apprendere utilizzando informazioni tratte da Internet, però, questo sistema si alimenta direttamente di milioni di conversazioni in arabo, intercettate attraverso l’apparato di sorveglianza israeliano nei territori occupati. Le informazioni, provenienti da persone che non hanno commesso alcun crimine, sono quindi utilizzate per addestrare un sistema che potrebbe essere poi impiegato per identificare sospetti, come ha spiegato Zach Campbell, ricercatore di Human Rights Watch.

Secondo un’inchiesta del sito israeliano Calcalist, invece, è stato creato in Israele un software malevolo progettato per raccogliere informazioni segretamente sugli utenti di un computer o di un dispositivo mobile senza il loro consenso che si chiama Pegasus e che è stato infiltrato anche nei cellulari di cittadini israeliani, eventualità sempre negata dai fondatori della Nso Group, la società israeliana che lo ha sviluppato. A infilarcisi dentro è stata la polizia israeliana che avrebbe, per quasi un decennio, utilizzato lo spyware contro sindaci, leader delle proteste anti-Netanyahu ed ex funzionari governativi. Tutti sarebbero stati spiati senza via libera legali: nessuna corte è stata interpellata in merito, non ci sono state autorizzazioni, la sorveglianza è stata condotta al di fuori della legge.

Organizzazione corporativa dell’economia e della società al servizio del capitale finanziario

Il fatto che Israele abbia adottato un modello economico e sociale in funzione del capitale finanziario è indicato, innanzitutto, da quanto esso rappresenti una delle maggiori garanzie per la difesa degli interessi economici e militari del polo imperialista dell’area europea e nordamericana nel perimetro mediorientale, zona fortemente contesa con il raggruppamento dei BRICS, specie a seguito della loro espansione a paesi come Iran ed Emirati Arabi Uniti. Per svolgere al meglio questo ruolo, dagli anni ’50 Tel Aviv ha ricevuto solo dagli USA oltre 260 miliardi di dollari di aiuti militari e soltanto nell’ultimo anno e mezzo, questi aiuti hanno superato i 20 miliardi di dollari. Israele, grazie a questi soldi, è all’avanguardia nella ricerca scientifico-tecnologica militare, è uno dei maggiori esportatori di armi e, contemporaneamente, uno dei maggiori clienti delle americane Boeing, General Dynamics, Lockheed Martin e RTX (Raytheon Technologies). Secondo i dati ISTAT, nel 2024 l’Italia ha esportato materiali classificati alla voce “armi e munizioni” verso Israele per un valore di 5,2 milioni di euro – anche se a colpire di più, però, almeno stando alla relazione redatta dal governo in materia, sono invece le armi che Israele manda a Roma, in direzione opposta: in un anno l’import dallo stato ebraico è triplicato, da 9 a 34 milioni di euro.

Israele, tuttavia, non si limita a fare affari con e a far fare affari ai capitali del polo imperialista “occidentale”: mentre nel 1992, ad esempio, il commercio bilaterale tra Cina e stato ebraico si attestava sui 50 milioni di dollari, nel 2021 ha raggiunto i 22,8 miliardi di dollari, e non è affatto diminuito. Nel 2021-2022, la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come principale fonte di importazioni per Israele, e finanzia continui investimenti nei territori occupati, contendendoli alle potenze occidentali.

Per poter garantire il plusvalore e il saggio di profitto richiesto dal capitale domestico e internazionale, la società israeliana si riduce, come in tutti gli stati capitalistici, ad essere molto diseguale: alto tasso di povertà e differenze di accesso al mercato del lavoro. Una frammentazione che sembra seguire, prevedibilmente, linee etniche e confessionali: i più poveri sono i palestinesi, gli ebrei etiopi e di origine araba. Gli arabi hanno più probabilità di essere poveri anche perché il welfare israeliano è tra i meno generosi (14% del PIL a fronte di una media OCSE del 22%). Nel caso degli arabi interviene anche la diseguale allocazione di istruzione pubblica e infrastrutture e la discriminazione nel mercato del lavoro.

Per sostenere questo modello economico e le continue tensioni belliche interne ed esterne che il ceto politico israeliano ha scelto di perseguire, le istituzioni israeliane fanno di tutto per frenare ogni tipo di conflitto sociale e per costruire una narrazione, anche a forza di fake news, che distolga lavoratori e proletari ebrei da ogni tentazione di conflitto di classe focalizzando la loro energia e attenzione sul sostegno alla politica bellica dello Stato. Anche l’esportazione delle contraddizioni sociali ed economiche attraverso la colonizzazione dei territori non giuridicamente parte dello Stato d’Israele può essere considerato un meccanismo per allineare la popolazione alle strategie imperialiste del governo. In questo senso, Israele può essere considerato un modello economico “corporativo di fatto”.

Infine, accenniamo al fatto che Israele ha speso circa 100 miliardi di shekel (28 miliardi di dollari) per conflitti militari solo nel 2024, ha riferito il ministero delle Finanze: una cifra che ha fatto aumentare notevolmente i prestiti del regime e il suo onere del debito. Nel 2022 la spesa militare di Israele è stata del 4,51 del PIL, più degli Stati Uniti e della Russia. Questi dati confermano ulteriormente quanto la violenza utilizzata dallo Stato israeliano per inasprire la sua politica coloniale e di pulizia etnica e per frenare le voci di dissenso sia legata a doppio filo dagli interessi economici e finanziari, che non sono ostacolati da alcun tipo di conflitto sociale di classe, con il proletariato israeliano condotto a concentrarsi prevalentemente sul “nemico esterno”.

È tuttavia importante aggiungere che non tutti gli israeliani hanno abbandonato la lotta di classe di fronte al nemico esterno. Il Partito Comunista d’Israele,  nel quale militano ebrei e arabi israeliani, lotta eroicamente e in condizioni durissime contro il capitalismo israeliano e il sionismo che rappresenta l’ideologia nazionalista, sciovinista e teocratica sulla quale si fonda lo Stato borghese di Israele.

Organizzazione paramilitare della piccola borghesia e del sottoproletariato

La funzione militare dei coloni nelle aree occupate è nota. Più di 700.000 coloni – il 10% di quasi 7 milioni di abitanti di Israele – vivono ora in 150 insediamenti e 128 avamposti che pullulano in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Le autorità israeliane danno ai coloni in Cisgiordania circa 20 milioni di shekel (5 milioni di dollari) all’anno per monitorare, segnalare e limitare le costruzioni palestinesi nell’Area C, che costituisce oltre il 60% della Cisgiordania. Il denaro viene utilizzato, tra le altre cose, per assumere ispettori e acquistare droni, immagini aeree, tablet e veicoli. Il 4 aprile, le autorità israeliane hanno chiesto di raddoppiare tale importo nel bilancio statale, portandolo a 40 milioni di shekel (10 milioni di dollari). Dal 7 ottobre 2023, Israele ha raddoppiato i suoi sforzi per costruire e armare una forza paramilitare di coloni nella Cisgiordania Occupata. 

Ecco come si esprime il giornalista Chris Hamill-Stewart parlando delle milizie dei coloni: «Indossando sandali o scarpe da ginnastica e divise dell’esercito israeliano, armati di fucili automatici e muovendosi in giro per la Cisgiordania Occupata in auto stile militare con luci gialle lampeggianti, le Squadre di Emergenza degli Insediamenti, conosciute come Kitat Konenut in ebraico, non sono una novità. Sono in circolazione dagli anni ’70. Nei mesi successivi al 7 ottobre, sono emerse oltre 800 nuove Squadre di Emergenza degli Insediamenti, come riportato dall’Istituto Israeliano per la Democrazia. Con un numero stimato di 10-30 individui in ciascuna squadra, ci sono probabilmente migliaia di reclute che si sono unite ai gruppi di milizie di coloni. Il confine tra milizia ed esercito in Cisgiordania è ormai indefinito. Dopo il 7 ottobre, i membri delle Squadre di Emergenza hanno sfruttato sempre più la situazione e si sono impegnati nella violenza contro i palestinesi con molta meno moderazione. Hanno indossato sempre più uniformi dell’esercito israeliano, rendendo spesso difficile identificare gli autori delle violenze, afferma il rapporto dell’ACLED». Oltre al fenomeno dello squadrismo coloniale, la delega dello Stato a organismi privati per l’esecuzione della violenza è rimarcata anche dal fatto che ormai i soldati sono spesso sostituiti da compagnie private.

Lo Stato d’Israele continua a spingere sulla militarizzazione di massa attraverso diverse pratiche. I bambini sono militarizzati già da piccoli, il porto d’armi è strettamente controllato dallo Stato ma è incoraggiato dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023. Il clima di insicurezza spinge sempre più civili ad armarsi, seguendo le istruzioni del governo. Violente folle di destra, di recente, hanno attaccato studenti arabi in due campus e lavoratori in varie aziende, mentre il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha distribuito migliaia di fucili d’assalto a squadre di sicurezza civili formate di recente in decine di città e insediamenti.

Il suprematismo etnico e religioso

Abbiamo delineato gli aspetti dello Stato d’Israele seguendo le linee della definizione di “fascismo” che avevamo individuato inizialmente. Nel paragrafo finale di questo articolo vogliamo aggiungere degli aspetti che, seppur non strettamente necessari per definire Israele come “fascista”, sono altamente correlati al suprematismo etnico, religioso e razziale che quasi sempre accompagna questo tipo di regimi.

In Israele, anche prima dell’inasprimento del massacro che ha causato dal 2023 più di 50mila morti tra i civili palestinesi, notoriamente, la popolazione palestinese viveva notoriamente in uno stato di apartheid, stato che interessava già tutti i palestinesi sotto il controllo israeliano, che vivessero in Israele, nei territori palestinesi occupati o in altri Stati come rifugiati. Un esempio è la negazione della nazionalità ai palestinesi residenti in Israele, cosa che determina per essi uno status di inferiorità giuridica da cui conseguono molte altre forme di discriminazione. È triviale dire che una tale situazione contraddice anche la più semplice definizione di “democrazia” borghese data dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, per la quale ogni individuo ha diritto di partecipare al governo e alla vita pubblica del proprio paese. Ricordiamo, naturalmente, che dal 1967 per le Nazioni Unite Israele è «Paese occupante» (nei Territori palestinesi di Cisgiordania e della Striscia di Gaza) e il diritto internazionale prevede che l’occupante abbia la responsabilità della cura di ciò che occupa e di chi vi abita.

Occorre poi fare cenno a una fondamentale questione di merito che comprende e va oltre la questione istituzionale: Israele potrà difficilmente essere equiparato ad una “democrazia” di alcun tipo finché non verrà chiarita nella sostanza la questione del laicismo. Il tema è reso complicato per lo Stato ebraico, innanzitutto, per via della mancanza di una Costituzione che definisca strutturalmente l’ordinamento dello Stato e stabilisca in modo esplicito i principi che questo intende rispettare nel funzionamento della vita pubblica. Questo non è un fatto irrilevante: ogni forma di democrazia presuppone una forma di Stato di diritto, cioè, che i cittadini abbiano a disposizione delle “regole fondamentali” attraverso le quali partecipare alla vita politica ed economica del Paese, in assenza delle quali ogni esecutivo o apparato dello Stato può esercitare delle forme di dispotismo sia, di solito, nei confronti delle minoranze sia nei confronti della popolazione intera, una volta eletto o nominato.

La visione generale di molti partiti, di gran parte dell’esercito e dei dirigenti della Pubblica Amministrazione coincide con quella della creazione di uno Stato su base etnico-religiosa, che per sua natura tende a discriminare le altre etnie e le altre religioni. Basti pensare al fatto che quando un colono occupa la terra di un palestinese giustifica spesso il suo gesto con la retorica biblica della “terra promessa”, affermando «Dio ha detto che questa è la mia terra». La rinuncia all’adozione di una Costituzione scritta, inoltre, è stata osteggiata nel tempo proprio dai religiosi, convinti che la Torah dovesse restare l’unica norma scritta del popolo ebraico e diventare la fonte primaria dell’identità del nuovo Stato. Questa situazione conduce al fatto che, benché formalmente non figurino leggi che conferiscono alla confessione ebraica lo status ufficiale di religione di Stato, in quanto espressione della religione di maggioranza, il gruppo ebraico gode di un trattamento di favore, in termini qualitativi e quantitativi, per quel che interessa strutture, risorse e servizi garantiti dallo Stato.

Approfondiamo questo punto importante attraverso l’analisi che Stefania Dazzetti fa nel suo saggio La qualificazione giuridica dello Stato di Israele dal punto di vista della libertà religiosa.

Va innanzitutto notato che con la promulgazione della Rabbinical Courts Jurisdiction (Marriage And Divorce) Law (5713-1953), lo Stato ebraico «ha attribuito la competenza esclusiva ai tribunali rabbinici per le questioni attinenti al matrimonio e divorzio tra ebrei – cittadini o residenti che costituiscono la maggioranza della popolazione israeliana», i quali si trovano dunque ad essere istituti sottoposti unicamente alle norme del diritto ebraico. Diritto che, per incorporazione diretta, è stato recepito nel sistema delle fonti del diritto israeliano. Allo stato pratico, questo compromette soprattutto l’accesso ai “diritti civili”: in quanto fondato sul principio di appartenenza alla comunità etnico-religiosa di riferimento, il sistema attuato nel Paese – secondo cui il quale la libertà del singolo è amalgamata a quella del gruppo religioso – non è capace di tutelare i cittadini che non hanno intenzione di contrarre un matrimonio religioso, il solo riconosciuto sul territorio israeliano. Questa situazione è, in effetti, aggravata dalla mancanza di una forma “secolare” di matrimonio e di divorzio – che lo Stato ebraico non ha mai adottato in ambito civilistico – il che impedisce ai cittadini israeliani che non conducono la loro vita sulla base delle norme religiose di possedere una valida alternativa. Tale discriminazione colpisce, si noti, tutti i cittadini atei, laici, agnostici e, addirittura, quegli ebrei affiliati alle correnti dell’ebraismo che adottano un’interpretazione della Halachah difforme da quella ortodossa, l’unica ufficialmente riconosciuta dallo Stato (è il termine ebraico che definisce la legge ebraica, un sistema di leggi e osservanze che guida la vita e il comportamento religioso ebraico). Quanto sia grottesco un simile stato di cose è testimoniato dal fatto che a tutto ciò ha dovuto parzialmente sopperire la Corte Suprema – da tempo, peraltro, al centro della già citata controversa riforma che rischia di compromettere i già anomali assetti istituzionali del Paese -, che da anni si adopera con pronunciamenti giudiziari tesi a compensare le disparità, promuovendo una certa forma di pluralismo nei diritti civili e sociali. In Israele, conclude Dazzetti, va diffondendosi oggi la coscienza secondo la quale l’obbligo di sposarsi esclusivamente secondo la legge rabbinica halakhica costituisca una coercizione lesiva dei principi fondamentali contemplati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, secondo la quale «Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, nazionalità o religione» (art. 16). Malgrado le pressioni provenienti dalla società israeliana, però, tutti i tentativi di introdurre il matrimonio civile sono puntualmente falliti per l’opposizione dei partiti religiosi.

Gli esempi più clamorosi di fondamentalismo religioso presente nello Stato ebraico sono rintracciabili nel trattamento della questione del divorzio.

Il divorzio, come già detto, è sottoposto ancora alla competenza esclusiva dei tribunali rabbinici. Un caso emblematico di discriminazione figlia di questo fatto è quello delle agunot, donne nei confronti delle quali i mariti non hanno la possibilità (in caso di scomparsa, cosa abbastanza diffusa in Israele) o non hanno intenzione di consegnare l’atto di divorzio (get). Secondo la legge ebraica il divorzio è un «atto personale che spetta al marito consegnare alla moglie e – a differenza degli orientamenti moderni che intendono il divorzio come una libera scelta personale – esso si basa sul concetto di colpa». Questo significa che, per rendere effettivo un divorzio, una persona deve dimostrare la colpa del coniuge oppure ottenere il suo consenso. In caso contrario, i tribunali rabbinici respingono le richieste di divorzio non riconoscendo i motivi legati alle scelte personali – come la rottura di una relazione – o le istanze di divorzio unilaterale “senza colpa”.

Di conseguenza, in assenza dell’atto di divorzio, le donne rimangono vincolate al precedente matrimonio: un’agunah non ha il diritto di risposarsi fino a quando l’atto di divorzio non sia stato emesso correttamente. In mancanza di una procedura effettuata secondo i crismi religiosi, la legge israeliana ritiene illecita addirittura una nuova relazione che la donna sceglie di portare avanti, con le peggiori conseguenze che vanno a ricadere sui figli concepiti in essa, che sono considerati mamzerim, ovvero segnati a vita come adulterini. Infatti, ai mamzerim, e addirittura ai loro discendenti per dieci generazioni, la Halachah proibisce di sposare altri ebrei.

È importante notare, inoltre, a conferma di quanto gli apparati dello Stato israeliano siano imbevuti di ideologia religiosa, che l’autorità pubblica israeliana fa ben poco per attenuare l’implementazione di questo tipo di regole. Al fine di garantire una rigida osservanza dei precetti sul divorzio, lo Stato israeliano mantiene infatti, presso il Ministero degli Affari Interni, una lista pubblica di mamzerim certificati. Fa allora bene ricordare che, invece, «gli uomini cui venga rifiutato il ‘get’ possono essere autorizzati dai tribunali rabbinici a risposarsi nonostante l’opposizione delle mogli, a conferma della forte disparità di trattamento che sussiste tra uomo e donna nelle procedure di divorzio». Abbiamo qui un altro elemento caratterizzante le leggi religiose ebraiche: la decisa penalizzazione delle donne sul piano giudiziario. Una penalizzazione che è evidente sia nella valutazione delle cause di divorzio, nelle quali l’infedeltà della donna è motivo assoluto di divorzio mentre quella dell’uomo no, sia nell’approccio tollerante verso comportamenti di violenza domestica da parte dell’uomo sia, infine, «nella determinazione delle sanzioni ‘halachiche’ che per gli uomini risultano essere di gran lunga più moderate: in caso di nuove nozze, per loro le ripercussioni sui diritti di proprietà sono infatti pressoché nulle, e i figli nati da una relazione extra coniugale non vengono considerati ‘mamzerim’».

Conclusioni

In un’epoca in cui la tendenza alla fascistizzazione della maggior parte delle potenze capitalistiche è un dato allarmante, con spinte evidenti verso la stretta repressiva (ad esempio con il DL Sicurezza in Italia) e riduzione dei margini di democrazia spesso effettuati attraverso alleanze sovranazionali come l’UE, Israele rappresenta un caso tristemente all’avanguardia: si tratta di uno dei rarissimi Paesi da potersi considerare retti da un regime letteralmente fascista. Questo si evince, soprattutto, da elementi connessi alla sorveglianza del governo sull’intera popolazione, all’organizzazione dell’intera economia in funzione degli interessi del capitale finanziario interno e straniero e all’organizzazione paramilitare di molte bande private, che fanno gli interessi delle fazioni più reazionarie del Paese. Sebbene l’aspetto legato all’agibilità democratica sia ancora formalmente simile a quello di una democrazia borghese “liberale”, la restrizione degli spazi politici si intensifica in maniera parallela alla tendenza suprematista e genocida del regime. Come conseguenza di questa analisi, possiamo dire che il sostegno che da anni viene garantito a Israele da parte delle maggiori potenze capitaliste mondiali (non escludendo quelle “non occidentali” come la Cina) è la dimostrazione plastica di quanto strumentali e ipocrite siano le rivendicazioni di “antifascismo” lanciate spesso dai governi di centro-sinistra dei Paesi europei e dalla stessa UE. Ignorare l’aspetto che il fascismo assume oggi nelle sue nuove forme, come e quanto esso incide ed è nutrito dagli stessi interessi padronali globali che hanno nutrito i fascismi europei del XX secolo significa trascurare il significato materiale e imperialista del fascismo stesso e abdicare alla lotta, attualissima, contro di esso.

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Domenico Cortese

Domenico Cortese, nato a Tropea nel 1987, dottore di ricerca in Filosofia e Storia. Gestisce il blog Il Capitale Asociale su FB e IG, è membro del comitato centrale del Fronte Comunista, in cui milita dalla sua fondazione. Collabora con L'Ordine Nuovo su argomenti di economia e attualità.

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