Lo scorso 8 giugno la bandiera italiana ammainata nella base militare NATO di Herat aveva segnato simbolicamente la fine del coinvolgimento delle truppe italiane nella guerra imperialista in Afghanistan, conclusosi ufficialmente con il rientro dell’ultimo soldato il 29 giugno. Il ritiro delle truppe della coalizione internazionale previsto per la data simbolo dell’11 settembre, così come annunciato dal presidente statunitense Joe Biden, sembra aver subito un’accelerazione che porterà entro la fine di agosto alla completa evacuazione dei soldati USA1; allo stesso modo anche gli altri contingenti, tra cui quello italiano, hanno dato disposizione per completare in breve periodo il disimpegno dal paese mediorientale.
L’Operazione Resolute Support, lanciata nel 2015 in sostituzione delle forze dell’Isaf (International Security Assistance Force) presenti nel paese dal 2001, aveva ufficialmente il compito di fornire addestramento, assistenza e consulenza a favore delle nuove istituzioni di Kabul e delle forze di sicurezza afghane attraverso un contingente iniziale di 16.000 soldati forniti dai Paesi Membri della NATO e suoi alleati2. Con l’avvio di questa operazione, la NATO sostituì le forze dell’Isaf che erano direttamente impegnate nei bombardamenti e combattimenti contro l’organizzazione terroristica di Al-Qaeda ed il regime dei Talebani (l’ala più fondamentalista dell’islamismo afghano-pashtun)3 e le sue milizie che controllavano gran parte del territorio afghano. L’Italia, fin dal principio, ricevette la provincia meridionale di Herat come zona operativa, stabilendo la propria base militare nell’omonima città nel sud del paese.
20 anni fa l’invasione
L’intervento militare avvenne sulla scia del sanguinoso attentato terroristico dell’11 settembre 2001, utilizzato dagli USA come pretesto per mettere nel mirino il regime dei Talebani, un tempo finanziati e foraggiati dagli stessi imperialisti statunitensi contro l’esercito sovietico e il governo afghano allora in carica, per giustificare e scatenare la guerra e l’occupazione dell’Afghanistan. Fu così che, per la prima volta, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (anche con il voto della Russia) si decise di estendere l’interpretazione dell’art.51 della Carta delle Nazioni Unite, che si riferisce al diritto di un paese di difendersi contro un attacco armato, accettando la richiesta degli USA. Da allora, la cosiddetta auto-difesa, che comprende anche il diritto dell’aggredito di rispondere a questo attacco colpendo fuori dai suoi confini, non è più solo una risposta a un attacco o invasione militare da parte di uno stato specifico, come previsto in precedenza, ma ogni attacco armato in generale, cosa che da allora è, ovviamente, interpretabile in modo arbitrario.
Così il 26 settembre 2001 una squadra di forze speciali statunitense venne paracaduta nella valle del Panjshir, nella parte montagnosa dell’Afghanistan settentrionale dove agivano i gruppi della cosiddetta Alleanza del Nord4 (non pashtun) che si contrapponevano al regime dei Talebani (pashtun) che dal 1996 aveva stabilito l’Emirato Islamico gettando l’Afghanistan nel più profondo oscurantismo con il sostegno di USA, Arabia Saudita, Pakistan, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti. Con l’operazione Enduring Freedom (ufficialmente iniziata il 7 ottobre 2001), ebbe inizio un’invasione in cui, come in ogni intervento militare di natura imperialista, il prezzo più alto è stato pagato dalla popolazione civile sia in termini di perdita di vite umane (più di 150mila vittime secondo le stime ufficiali5) sia in riferimento alle condizioni di vita in un paese devastato e saccheggiato dalle potenze capitaliste occidentali intervenute per la tutela dei propri interessi a fronte di quelli delle potenze concorrenti e a discapito di quelli del popolo afghano. Dietro la facciata dell’intervento militare in nome della “lotta contro il terrorismo e per la pace, i diritti umani, la democrazia e la libertà”, in realtà si celavano motivazioni, piani e obiettivi ben diversi e, a distanza di vent’anni, la sua conclusione lascia un paese distrutto e tutt’altro che pacificato, al di là delle dichiarazioni di facciata, in cui le stesse forze talebane e jihadiste si sono inserite e legittimate appieno in settori della società afghana fortemente ostili all’intervento straniero nel proprio paese. Il sostegno alle milizie fondamentaliste, con l’avvio dell’intervento imperialista, si è infatti rinvigorito in un intreccio tra lotta all’invasore ed estremizzazione della fede islamica che ha portato, di conseguenza, il paese in una guerra civile ancora più cruenta con la comparsa negli ultimi tempi anche dell’ISIS nella provincia di Nangarhar, nel sud del paese.
Gli interessi geostrategici dell’imperialismo USA
Le origini di questo conflitto arrivano da lontano, dal 1979, quando con l’uccisione del Primo Ministro della Repubblica Democratica dell’Afghanistan6, Mohammad Taraki, il processo di radicali riforme di orientamento socialista come la redistribuzione delle terre ai contadini e a favore della laicità, dell’alfabetizzazione, dell’emancipazione delle donne, l’abolizione delle pratiche feudali e oscurantiste, venne interrotto; il successivo intervento dell’URSS per ristabilire un governo democratico venne ostacolato dalle milizie dei Mujaheddin, il fronte d’opposizione di stampo islamico, finanziato anche dagli Stati Uniti. Dopo il 1989, con il ritiro sovietico, le armi e il denaro americano fornirono la base per la vittoria dei Talebani nella sanguinosa guerra civile reazionaria che ne seguì e per la nascita e la crescita del fondamentalismo islamico di Al-Qaeda e del suo fondatore Osama Bin Laden: proprio Bin Laden, ex-mujaheddin, divenne, paradossalmente (almeno in apparenza), il nemico pubblico degli Stati Uniti nel nuovo millennio portandoli, dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001, ad invadere l’Afghanistan insieme soprattutto ai britannici e altri paesi alleati, tra cui l’Italia.
Fu la prima di una serie di interventi e guerre imperialiste (seguì a breve quella in Iraq) “preventive” lanciate dagli USA seguendo la cosiddetta “dottrina Bush” o “PNAC”7, con lo scopo di conservare la supremazia nella piramide imperialista internazionale attraverso “mezzi militari” (guerre, interventi, invasioni…) dietro la retorica della “guerra al terrore”, dopo la “guerra fredda” contro il blocco sovietico dei decenni precedenti.
Come dicevamo, infatti, l’attacco dell’11 settembre fu il pretesto, la giustificazione dietro la quale si celavano i reali interessi e piani degli stati al servizio dei monopoli capitalistici euro-atlantici in un paese strategico ai confini con i territori dell’ex Unione Sovietica, la Cina e l’Iran e ricco di risorse energetiche e minerarie come cromite, carbone, rame, oro, ferro, gas naturale, petrolio ecc., in gran parte non sfruttate. Senza dimenticare l’oppio con il quale l’Afghanistan è produttore del 90% dell’eroina trafficata su scala globale.
Con la dissoluzione dell’URSS, gli imperialisti statunitensi accelerarono la politica per sostituirne l’influenza nell’Asia centrale, rompere il monopolio russo sui gasdotti e sul mercato della fornitura di petrolio e gas verso l’Asia meridionale ed assumere una posizione dominante. In mezzo all’acuirsi della rivalità interimperialista, il controllo delle risorse di idrocarburi plasmò quindi il conflitto in tutta la regione, con l’obiettivo sia di garantirsi l’accesso e il controllo delle forniture energetiche sia di impedirlo ai rivali. Per gli imperialisti USA, uno degli aspetti chiave era ovviamente quello di impedire alla Russia di riemergere come uno dei propri principali rivali8.
L’Afghanistan rappresenta infatti uno snodo strategico dell’Asia centrale, crocevia di giacimenti di petrolio e gasdotti con relativi conflitti d’interessi tra cui quelli che si sviluppano intorno al progetto del TAPI – promosso dagli USA per rompere il monopolio russo di fornitura del gas – e quello promosso dall’Iran con il sostegno di Russia e Cina, il gasdotto Iran-Pakistan (IP) che dovrebbe rifornire il porto pakistano di Gwadar, strategico affaccio sull’Oceano Indiano per la Cina.
Il progetto del TAPI, ovvero il gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, risale già al 1977. Negli anni ’90 venne fondato il consorzio CentGas9 guidato dalla statunitense Unocal (oggi integrata nella Chevron) che firmò nel gennaio del 1998 un accordo con i Talebani che qualche mese prima erano stati accolti con una delegazione negli USA visitando anche numerose installazioni del monopolio energetico statunitense a Sugarland, Texas. Pochi mesi dopo, ad agosto 1998, il progetto del TAPI venne messo in discussione a seguito dei primi bombardamenti contro le basi di Al Qaeda in risposta agli attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania. Il regime dei Talebani non era più considerato affidabile dagli USA, così la Unocal sospese le sue attività ma nell’aprile del 1999, la saudita Delta Oil ne prese il posto con Afghanistan, Turkmenistan e Pakistan che annunciarono la ripresa del progetto senza gli USA che rischiavano così di perdere il controllo mentre diverse società di perdere ricchissimi contratti. La guerra arriverà da lì a poco e l’ex consigliere di Unicol, l’afghano Zalmay Khalilzad. sarà nominato inviato speciale degli USA in Afghanistan appena nove giorni dopo la formazione del fantoccio governo provvisorio guidato da Karzai (anch’esso legato agli USA e consigliere della Unicol) nel dicembre del 2001.
Lungo 1.814 km, il TAPI dovrebbe collegare il giacimento di Galkynysh del Turkmenistan (quarta riserva di gas al mondo) ai metanodotti di Multan, nella regione del Punjab fino all’India nella città di Fazilka, attraversando l’Afghanistan per 735km, passando nelle vicinanze di Herat e Kandahar, e il Pakistan vicino a Quetta. Con un potenziale attualmente di 33 miliardi di metri cubi di gas all’anno, dovrebbe fornire 14 milioni di m3 di gas naturale al giorno all’Afghanistan, 38 al Pakistan e 38 all’India, per un totale giornaliero di 90 milioni di m3. Questo progetto entra in conflitto con gli interessi russi, iraniani e cinesi nella regione e dopo due decenni di guerra e varie vicissitudini e rimescolamenti di forze, oggi il TAPI si avvia ad esser una realtà10, sviluppato dalla Galkynysh – TAPI Pipeline Company Limited con la partecipazione della Banca di Sviluppo Asiatico (ADB) e con l’appoggio di Washington mentre i talebani promettono oggi di garantirne la sicurezza sotto la pressione del Pakistan e in virtù dei grandi affari che ne conseguono. Ma gli intrecciati conflitti d’interesse e competizioni tra gli attori locali e le potenze regionali e globali (USA, GB, Germania, Cina, India, Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Russia, Turchia, Qatar ecc.), tuttavia, rendono il progetto tutt’altro che definito.
La situazione attuale 20 anni dopo l’invasione
L’Afghanistan vive ormai da più di 20 anni in uno stato di dipendenza, occupazione, saccheggio, arretratezza e guerra civile permanente fomentato ed acuito dalla presenza militare degli Stati Uniti e delle truppe NATO che ha portato la popolazione civile a dividersi ancor più ferocemente tra i sostenitori del debole governo di Kabul, più o meno favorevoli alla presenza delle truppe straniere, e gli oppositori che vorrebbero vedere la propria terra libera da interferenze straniere; in questo gruppo ovviamente si inseriscono una moltitudine di correnti e di visioni politiche differenti che non sostengono l’operato e gli obiettivi dei Talebani ma che politicamente e mediaticamente vengono etichettati dai media occidentali in un unico contenitore: quello dell’integralismo islamico.
La popolazione afghana si trova così soggiogata a povertà, emigrazione, corruzione, analfabetismo, discriminazioni, diseguaglianza, insicurezza, oscurantismo, tortura, stretta tra gli attacchi terroristici che quasi quotidianamente colpiscono il paese e i bombardamenti NATO che spesso provocano vittime civili, classificate come “danni collaterali”. Gli stessi “negoziati di pace” sono stati accompagnati infatti da un’escalation della violenza con protagonisti tanto i Talebani quanto le forze del governo di Kabul e quelle statunitensi, ciascuno nell’ottica di un rafforzamento della propria posizione al tavolo del negoziato.
Nonostante il 28 febbraio 2020, siano stati siglati gli “accordi di pace” a Doha, in Qatar, tra gli Stati Uniti e i Talebani per avviare quelli intra-afghani con il governo (messo da parte in gran parte dei negoziati), l’anno in corso sta vedendo una nuova escalation dei morti e degli attacchi contro i civili (29% in più rispetto allo stesso periodo del 2020),11 dimostrando come la realtà sia ben diversa da quella che si tenta di raccontare attraverso i comunicati ufficiali e i media, essendo basata su fragili equilibri di forza e la debolezza delle istituzioni statali, del governo di “unità nazionale” del presidente Ashraf Ghani (tra i più corrotti al mondo) e dell’Esercito Nazionale Afghano (ENA)12, con un quadro di instabilità che ha sullo sfondo rivalità e competizioni che coinvolgono piani e interessi di vari gruppi armati, forze locali e potenze imperialiste regionali e globali. Se caotico e incerto è lo scenario che si apre adesso, ciò che è sicuro è che le difficili condizioni del popolo afghano non sono per nulla migliorate a vent’anni dall’intervento militare imperialista, al contrario la situazione si è ulteriormente aggravata a dimostrazione di come nulla aveva a che fare con la pace, la democrazia e la lotta al terrorismo.
Ma anche considerando i reali obiettivi che si proponeva l’intervento a guida USA per far avanzare i suoi piani geostrategici nella regione, questi non si possono certamente valutare come del tutto acquisiti considerando, tra le altre cose, che si prospetta una prolungata instabilità e ingovernabilità come dimostra la fragilità stessa dell’accordo raggiunto che presumibilmente dovrebbe allineare ai suoi interessi sia le deboli istituzioni statali (politiche, economiche e militari) del regime fantoccio afghano, sia i Talebani che oggi sono un gruppo tutt’altro che monolitico. Quest’ultimi, guidati dal mullah Hibatullah Akhundzada, da un lato formalmente si impegnano a rompere le relazioni con Al Qaeda e a non intaccare gli interessi occidentali in cambio del ritiro delle truppe straniere, dall’altro mantengono forza, capacità e controllo di buona parte del territorio afghano tanto da permettergli anche una nuova offensiva con la conquista di più della metà dei circa 400 distretti. Le milizie talebane hanno preso il controllo di postazioni strategiche in prossimità e attorno alle diverse capitali provinciali, tra cui il distretto chiave di Panjwai nella provincia meridionale di Kandahar (luogo di nascita dei Talebani), e il principale valico di frontiera con il Tagikistan, una delle principali rotte commerciali, dove hanno costretto alla fuga un migliaio di soldati dell’ENA rifugiatosi oltre il confine. In risposta, il Tagikistan ha mobilitato 20.000 soldati lungo la linea di confine appellandosi alla Russia (che qui ha la più grande base militare all’estero) per stabilizzare il confine con l’Afghanistan.13
Diversi analisti parlano apertamente di un prossimo rovesciamento da parte dei Talebani del mai riconosciuto governo della Repubblica Islamica14 attualmente guidato da Ghani, dato che i rapporti di forza militari sono adesso nettamente a loro vantaggio, mentre altri gruppi armati come quello dell’ISIS contendono parti di territorio. Il regime fantoccio guidato da Ghani, infatti, manca di ogni legittimità e coesione politica, reggendosi su compromessi tra vari gruppi ed è sull’orlo del collasso tanto da ricorrere ad armare anche i cosiddetti “gruppi civili volontari” resuscitando le milizie fedeli ai comandanti locali o ai potenti signori della guerra delle fazioni che hanno insanguinato il paese nella guerra civile degli anni ‘90.
La base sociale dell’attuale regime politico sono l’alta e media borghesia urbana, possidenti, capitalisti, ceti burocratici che si spartiscono i finanziamenti imperialisti e depredano i beni comuni, mentre i Talebani, la cui base di classe è similmente composta da ricchi possidenti (in particolare grandi proprietari terrieri) dei clan dominanti della maggioranza etnica pashtun, lanciano l’offensiva militare contro il governo (salvaguardando le forze straniere) per guadagnare posizioni e forza nei negoziati e quindi nella ristrutturazione del potere con sullo sfondo la minaccia di una nuova escalation della guerra civile e la restaurazione del regime teocratico dell’Emirato islamico che però non ha attualmente la benedizione delle potenze regionali e internazionali.
Sulla base della concreta realtà che si determinerà sul campo di battaglia dovrebbe avvenire la complessa operazione di condivisione-spartizione del potere (su base etnica ed espressione dei vari clan e gruppi politici delle classi dominanti) su cui non c’è ancora alcun accordo politico. Anche se gli sforzi diplomatici riusciranno in questo intento, sulla base dei rapporti di forza determinatesi, ciò che avverrà sarà la riorganizzazione dell’attuale regime con l’integrazione dei Talebani andando a rafforzare gli aspetti teocratici-oscurantisti, misogini, reazionari, antiproletari e antipopolari già presenti, con le classi lavoratrici, i contadini poveri e i settori popolari che continueranno ad esser sottomessi al giogo dello sfruttamento, dell’oppressione e del saccheggio a costo della pauperizzazione di massa a vantaggio dei possidenti afghani e dei monopoli internazionali negli equilibri della spartizione imperialista.
Significativa è inoltre la posizione della Cina che, confinante per una breve tratto con l’Afghanistan, è direttamente interessata dallo sviluppo dello jihadismo nella provincia dello Xinjiang15 ed ha criticato fortemente la decisione degli USA parlando di “ritiro frettoloso” che “ha già influito negativamente sul processo di pace interno afghano e sulla stabilità regionale”, sollecitando le Nazioni Unite a “svolgere il proprio ruolo e monitorare da vicino la situazione”16. Questa posizione si accompagna alle intenzioni e mosse per accrescere la sua influenza in particolare attraverso le forti relazioni con il Pakistan (rivale dell’India e con molta influenza sui Talebani), da un lato sul piano economico estendendo il Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC)17 all’Afghanistan nell’ambito della Belt and Road Initiative18 ma anche politico e militare a sostegno del governo afghano nella lotta “ai gruppi terroristici” pensando ad una missione di “peacekeeping” in ambito ONU. La Cina è infatti preoccupata dal fatto che nel fallimento statunitense si innesti la mossa di provocare l’instabilità della regione che potrebbe danneggiare gli affari e piani cinesi fino al punto da coinvolgerla nel pantano afghano.
Per la Cina, la regione centroasiatica è di interesse, infatti, da un lato per i rifornimenti di gas naturale e petrolio (in particolare per le sue regioni occidentali), dall’altro per le proprie esportazioni in questi paesi ma soprattutto per le vie di trasporto terrestri su rotaia verso l’Europa. La Russia ha riguadagnato posizioni nella regione (dopo gli anni ’90) e mantiene una forte presenza militare e in materia di sicurezza. Al contempo, l’India, rivale del Pakistan e concorrente regionale della Cina, ha da tempo esteso la sua influenza in Afghanistan e stretto l’asse, seppur contradditorio, con gli USA come anche la Turchia che conta di una accresciuta influenza nella regione nonché presenza nel paese19.
Tutto questo a dimostrazione di come il risultato diplomatico americano dell’accordo di Doha sia stata solo una pratica aleatoria volta unicamente a disimpegnare gli Stati Uniti dalla ormai insostenibile e impopolare endless war (la “guerra infinita”) in cui sono rimasti impantanati per decenni in una situazione di stallo, cercando da un lato di mascherare le proprie menzogne e il proprio fallimento20 e dall’altro di procedere al contempo nella direzione di una diversa distribuzione delle sue truppe sulla base della ridefinizione delle proprie strategie politiche e militari.
Rilanciare la lotta contro la partecipazione dell’Italia alle missioni imperialiste
Allo stesso modo la NATO e l’Italia, dopo due decenni, scelgono oggi di ritirare le proprie truppe, dopo l’abbandono del campo da parte del partner di maggioranza, dimostrando come l’interesse nell’intervento armato fosse perlopiù guidato dal sostegno politico-militare agli Stati Uniti. Ma non bisogna sottovalutare come per l’Italia e per l’UE, questa parte di regione asiatica ricopriva e ricopre tutt’ora un’importanza strategica (dall’Azerbaijan al Turkmenistan) nella competizione imperialista relativa alla diversificazione delle fonti di afflusso di gas naturale, con i diversi progetti di gasdotti in costruzione (TAP) o in progetto (Trans Caspico).
L’Italia lascia l’Afghanistan dopo aver speso complessivamente, secondo i dati del rapporto dell’Osservatorio MIL€X, almeno 8,5 miliardi di € per le spese militari e collaterali di cui soli 320 milioni sono stati investiti in iniziative di cooperazione civile21, 53 sono stati i soldati italiani morti e 735 i feriti in una missione che ha visto avvicendarsi circa 50.000 militari e che nel suo picco è arrivata a schierarne 4.500. Il tutto con i costi per la missione che erano compresi tra i 700 e gli 800 milioni annui22, Secondo quanto riferito dal ministro della Difesa, Guerini, nell’informativa del 24 giugno al Senato, l’Alleanza Atlantica continuerà il suo impegno in forme diverse: «la chiusura della missione non è un abbandono del campo, ma l’impegno si evolve ed è essenziale che non venga mai meno». L’Alleanza ha confermato la volontà di mantenere un impegno significativo al momento fino al 2024. «Siamo in una fase nuova, tutti gli alleati stanno dato segnali convergenti sull’impegno in Afghanistan. Il nostro ruolo rimarrà attivo capitalizzando i frutti degli impegni di questi 20 anni23».
Va smascherata la falsa costruzione ideologica con cui media e governi coprono questo ritiro. I “frutti degli impegni di questi 20 anni” altro non sono che un tentativo di espandere l’influenza, gli interessi e i profitti dei monopoli, compresi quelli italiani, alimentando al contempo l’industria bellica e delle armi. I miliardi di euro spesi sottraendoli ai proletari, le migliaia di morti, feriti e mutilati tra la popolazione afghana, i “sacrifici” con cui si richiamano le morti dei militari italiani, non avevano alcuno scopo “umanitario” e i cosiddetti “successi” ottenuti si traducono per la popolazione afghana nell’esacerbazione delle divisioni e dei conflitti etnici, del fondamentalismo e dell’oscurantismo religioso, nella riproduzione dell’oppressione in una guerra disastrosa a cui oggi, finalmente, si può scrivere la parola fine al coinvolgimento militare italiano in Afghanistan. Questo non deve però lasciar spazio a fallaci interpretazioni dato che è già noto come questo serva contemporaneamente alla ridefinizione del dislocamento dei militari italiani in nuove missioni a cominciare dall’Africa (in particolare nella regione del Sahel, in Libia e, notizia recente, in Mozambico) e dall’Iraq24, frutto degli interessi e piani della borghesia imperialista italiana.
Il ritiro dall’Afghanistan è l’occasione per decostruire il mito ingannevole che avvolge e giustifica agli occhi delle masse questi interventi militari smascherandone la reale natura e rilanciare nel conflitto di classe la lotta contro la partecipazione dell’Italia alle missioni imperialiste (in essere e in progettazione), la NATO, le spese e le basi militari, la preparazione alla guerra che ha la sua origine nella crisi generale del capitalismo giunto al suo ultimo stadio. Il ritiro delle forze di occupazione straniere dall’Afghanistan dimostra che le potenze imperialiste coinvolte non sono invincibili, ma dall’altro lato il caos e la distruzione che lasciano in eredità rendono ancora duro, complesso e lungo il cammino per il martoriato popolo afghano che potrà affermarsi solo in un’autodeterminazione che veda il protagonismo cosciente delle masse proletarie e popolari sulla base dei propri interessi.
La lotta del popolo afghano e le giuste rivendicazioni per poter scegliere da sé il proprio destino rimangono quindi una lotta contro i piani imperialisti, l’oscurantismo religioso, le borghesie imperialiste e le classi dominanti della società afghana, che ancora una volta hanno dimostrato di essere nemiche delle classi popolari e dei loro interessi portando anche in questa regione fame, povertà e guerra. La sconfitta dei piani del “nostro” imperialismo, della nostra borghesia e delle sue alleanze internazionali, è un aspetto della lotta comune che unisce il proletariato del nostro paese con i proletari e i popoli nei paesi che li subiscono, per mettere fine al sistema di sfruttamento capitalistico che genera oppressioni, competizioni inter-imperialiste, guerre e profughi. In questa lotta bisogna continuare a mantenere viva la solidarietà internazionalista con il popolo afghano.
di Salvatore Vicario e Giovanni Sestu