L'Ordine Nuovo

Menu superiore

Menu principale

  • Rassegna operaia
  • Capitale/lavoro
  • Classe e partito
  • Internazionale
    • Notizie dal mondo
    • Imperialismo
    • Vita politica internazionale
  • Politica
  • Terza pagina
    • Film e TV
    • Libri
    • Musica
    • Pillole di storia
    • Storia di classe
    • Manifesti
  • Tribuna
  • Speciali
    • Centenario PCdI
    • Lenin 150
    • Rivista Comunista Internazionale

logo

L'Ordine Nuovo

  • Rassegna operaia
  • Capitale/lavoro
  • Classe e partito
  • Internazionale
    • Notizie dal mondo
    • Imperialismo
    • Vita politica internazionale
  • Politica
  • Terza pagina
    • Film e TV
    • Libri
    • Musica
    • Pillole di storia
    • Storia di classe
    • Manifesti
  • Tribuna
  • Speciali
    • Centenario PCdI
    • Lenin 150
    • Rivista Comunista Internazionale
  • A 80 anni da Hiroshima e Nagasaki: una riflessione sul rischio atomico

  • Vita politica internazionale – Trentanovesimo numero

  • Sulla 21ª Assemblea Generale della WFDY

  • Sulle cacce reazionarie a Torre Pacheco

  • Accordo del luglio 2025 in Kanaky: tappa verso l’autodeterminazione o ennesima trappola?

  • Trasformare la questione curda in una pace del capitale e nell’ostilità verso l’ideale della Repubblica!

  • America First, i lavoratori per ultimi – L’impatto economico di sei mesi di Trump

  • Economia di guerra e Intelligenza Artificiale

  • Il premio a Salvini e il carattere di agente sionista della Lega

  • La falsa opposizione alla guerra

VPI - Articoli
Home›VPI - Articoli›America First, i lavoratori per ultimi – L’impatto economico di sei mesi di Trump

America First, i lavoratori per ultimi – L’impatto economico di sei mesi di Trump

Di Redazione
03/08/2025
148
0
Condividi:

Da Manifest, organo del Nuovo Partito Comunista dei Paesi Bassi (NCPN)
18 luglio 2025
Link all’originale

 

Le recenti misure commerciali e le scelte di politica economica adottate sotto l’amministrazione Trump non sono fenomeni isolati, ma fanno parte di uno sviluppo più ampio nella storia industriale ed economica degli Stati Uniti. Questi sviluppi riflettono un cambiamento strategico mirato a ripristinare la capacità industriale all’interno degli Stati Uniti, mentre prosegue al contempo il trasferimento di ulteriore ricchezza dalla classe operaia ai capitalisti.

Trump ha apertamente abbracciato i dazi doganali aggressivi come strumento per ridare slancio all’industria americana. Nel gennaio 2025 ha lamentato che gli Stati Uniti avevano “sofferto enormemente” a causa di quella che considerava una concorrenza sleale, affermando che il Paese “doveva cambiare rotta”. Nel maggio 2025, durante alcune apparizioni mediatiche, il presidente ha dichiarato che dazi ancora più elevati erano giustificati; ha affermato che un “dazio dell’80 per cento sui prodotti cinesi sembra adeguato” per “dare ai lavoratori americani una possibilità equa” rispetto agli altri Paesi.

Queste dichiarazioni presentavano i dazi all’importazione come una forma di nazionalismo economico, orientata alla ristrutturazione delle catene globali di approvvigionamento a favore dell’industria statunitense e alla rinascita della “cintura della ruggine” – una regione nel nord-est che nel secolo scorso costituiva il fulcro dell’industria americana. Ma la narrazione della difesa dei posti di lavoro americani e della salvaguardia degli interessi nazionali nasconde un’altra agenda economica, più profonda: il rafforzamento del dominio capitalista attraverso politiche che favoriscono i grandi produttori industriali e gli interessi finanziari, a scapito della classe operaia.

Conseguenze della crisi finanziaria del 2008

La guerra economica che sarà descritta più avanti, come dazi, tasse di ancoraggio e misure protezionistiche, è direttamente collegata allo sviluppo più ampio della politica fiscale e monetaria statunitense a partire dal periodo in cui gli idealisti libertari di Occupy piantarono le tende sui prati delle istituzioni finanziarie durante la crisi economica del 2008. Per comprendere questi legami, è essenziale analizzare il ruolo dell’accumulo del debito, del quantitative easing (QE) e di altre strategie economiche post-crisi.

Il QE, introdotto dalla Federal Reserve americana dopo il 2008, consisteva in acquisti su larga scala di titoli di stato e altri asset finanziari per iniettare liquidità nell’economia. Sebbene abbia contribuito a stabilizzare i mercati e stimolare gli investimenti, ha anche alimentato l’inflazione dei prezzi degli asset e una dipendenza dai tassi di interesse bassi. Mentre il QE gonfiava i mercati finanziari, mascherava le debolezze strutturali dell’economia reale, come la diminuzione della capacità industriale e la stagnazione salariale, che hanno incrementato la disuguaglianza.

Mantenere questi livelli di debito richiede nel lungo termine una crescita economica costante e entrate pubbliche adeguate. Misure commerciali protezionistiche come i dazi sono in parte destinate a ridurre i deficit commerciali e stimolare la produzione industriale interna, che secondo la teoria keynesiana dovrebbe aumentare le entrate fiscali e aiutare a ripagare il debito. In realtà, queste misure spesso hanno l’effetto opposto; rallentano la crescita economica e riducono le entrate necessarie per gestire il debito.

Le nuove misure commerciali possono essere viste come una reazione a questo squilibrio, un tentativo di ripristinare una “vera” potenza economica attraverso la crescita della produzione e delle esportazioni. Pur rappresentando un cambiamento rispetto alla precedente tendenza di libero scambio internazionale e deindustrializzazione, l’attuazione di entrambe le strategie borghesi dà priorità agli interessi a breve termine del capitale. In entrambi i casi, la classe operaia è vittima dei capitalisti che puntano a minimizzare i costi, a scapito di condizioni di lavoro sicure e di conquiste sociali. Finché non saranno messi in discussione i rapporti capitalistici di produzione sottostanti, la questione del protezionismo o della liberalizzazione riguarda soprattutto i diversi settori della classe dominante, non la classe operaia.

La recente pressione inflazionistica è in parte una conseguenza tardiva di un lungo periodo di QE e pacchetti di stimolo fiscale, aggravata dalle interruzioni nelle catene di approvvigionamento e dalle restrizioni commerciali. Dazi e tasse di ancoraggio aumentano l’inflazione alzando i costi delle importazioni, che vengono poi trasferiti ai consumatori. Questo crea un effetto a catena che rende necessaria una stretta monetaria (ad esempio con l’aumento dei tassi di interesse) per controllare l’inflazione, rallentando ulteriormente l’economia e complicando la gestione del debito, generando così la cosiddetta stagflazione.

La globalizzazione delle catene di approvvigionamento a vantaggio della massimizzazione del profitto – accelerata da un enorme trasferimento di ricchezza dalla classe operaia alle imprese private dal crollo dell’Unione Sovietica in poi – ha reso gli Stati Uniti fortemente dipendenti dalla produzione estera, in particolare dalla Cina. Dopo il 2008 questa dipendenza è aumentata ulteriormente, poiché le aziende cercavano ulteriori riduzioni dei costi in un contesto di domanda interna stagnante. Le nuove misure commerciali sembrano mirare a ridurre le vulnerabilità emerse durante le interruzioni globali nelle catene di approvvigionamento (come durante il picco della pandemia di COVID-19) e a garantire nuovamente industrie strategiche cruciali per la sicurezza nazionale.

Dal 2008 l’economia americana, nonostante la crisi mondiale del credito, si è ulteriormente finanziarizzata, con una crescita gonfiata da speculazioni di mercato non proporzionali alla produzione industriale. Questo spostamento ha aggravato la disuguaglianza di reddito e l’instabilità economica. Le misure commerciali protezionistiche possono essere interpretate come un tentativo di riallineare l’economia verso la produzione industriale. Ma senza affrontare il problema della finanziarizzazione, manifestatosi in bolle speculative, sottoinvestimenti nei settori produttivi e infrastrutture deteriorate, queste misure offriranno solo sollievo superficiale o addirittura avranno effetti contrari, dato che gli Stati Uniti non controllano più la produzione di molti componenti essenziali per sostenere le loro ambizioni imperialiste.

Così come il divieto di esportazione di tecnologie verso la Cina ha accelerato lo sviluppo dei chip cinesi nell’ultimo decennio, alcune parti della classe capitalista statunitense sperano che il protezionismo riporti lo sviluppo interno di queste risorse. Sarà però una sfida enorme, dato che in molti casi le intere catene produttive necessarie per fabbricare localmente tali beni sono ormai scomparse.

Storicamente, tali misure protezionistiche e strategie industriali non sono state usate solo per stimolare la produzione interna, ma anche per consolidare ulteriormente il potere economico. L’introduzione di meccanismi come dazi, tasse di importazione e barriere commerciali colpisce in modo sproporzionato la classe operaia, poiché porta a prezzi al consumo più alti, riduzione del potere d’acquisto e insicurezza lavorativa nei settori non direttamente protetti da queste misure. Nel frattempo, le industrie ad alta intensità di capitale e i loro azionisti raccolgono i frutti della riduzione della concorrenza e dell’aumento del potere di mercato.

Queste misure commerciali illustrano dunque un modello sistematico in cui la ristrutturazione economica sotto il pretesto di “interesse nazionale” si traduce in una redistribuzione verso l’alto della ricchezza, nel rafforzamento delle differenze di classe esistenti e nella perpetuazione del dominio degli interessi capitalistici nel panorama economico.

L’amministrazione Trump giustifica queste misure come giuste e sicure. Documenti e discorsi fanno riferimento alla “regola d’oro” del commercio – “trattateci come noi trattiamo voi” – e accusano i rivali di “barare” e di sfruttare gli esportatori americani. Il deficit commerciale di merci di quasi 1,2 trilioni di dollari nel 2024 è etichettato come emergenza nazionale. Trump afferma che le politiche commerciali e valutarie di altri governi hanno “derubato” gli Stati Uniti. I dazi su Messico, Canada e Cina vengono presentati come misure per fermare il “flusso senza precedenti” di immigrati illegali e fentanyl, utilizzando poteri di emergenza (IEEPA) per “proteggere le famiglie americane”.

L’intero pacchetto tariffario del 2025 aumenta il dazio medio effettivo sulle importazioni negli USA del 17% (per ora, nessuno sa cosa succederà la settimana prossima), facendo salire i prezzi di circa il 2,3% e costando a ogni famiglia in media circa 3.800 dollari all’anno in perdita di potere d’acquisto. Il PIL è previsto in calo di mezzo punto percentuale e le esportazioni diminuiranno di quasi il 20% se la situazione persiste. Questi dazi funzionano come tasse regressive, trasferendo ricchezza dai lavoratori (attraverso l’inflazione più alta e il consumo più basso) ai produttori protetti.

Alcune industrie pesanti statunitensi, come acciaierie e impianti di cemento, sono le maggiori beneficiarie, dato che l’utilizzo della capacità produttiva è salito all’80% per la diminuzione delle importazioni. L’industria automobilistica americana combatte da tempo contro l’ondata di veicoli elettrici prodotti in Cina, ma ora trae vantaggio anche dai prezzi d’importazione più alti su altri tipi di auto, soprattutto rispetto a aziende cinesi come BYD.

Altri settori, come l’agricoltura, gli esportatori e le aziende tecnologiche, affrontano costi più elevati per componenti cinesi. Sebbene alcuni di questi settori mostrino un leggero spostamento produttivo verso gli USA, non è chiaro se ciò sia una risposta ai dazi o parte di ristrutturazioni già pianificate per mercati esteri instabili. La misura eccezionale di Trump per le merci USMCA (USA, Messico, Canada – produzione transfrontaliera) dimostra che le catene di approvvigionamento transfrontaliere e i produttori automobilistici americani probabilmente hanno contestato i dazi generali.

Così, Stellantis (Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Citroën, Dodge, DS, Fiat, Jeep, Lancia, Maserati, Opel, Peugeot, Ram Trucks e Vauxhall) ha fermato la produzione negli USA e in Messico a causa dell’aumento dei costi dei materiali. Tesla ha aumentato i prezzi di tutti i suoi modelli. E nonostante la sua grande capacità produttiva negli USA, anche Ford ha alzato i prezzi di tutta la sua gamma di veicoli. In altri settori, come la tecnologia, Apple si è impegnata a spostare una parte significativa della produzione in India per evitare i dazi più severi.

L’impatto complessivo sulla classe operaia è inequivocabilmente negativo. Sebbene i dazi siano spesso presentati come misure per salvare posti di lavoro, i settori protetti impiegano relativamente poche persone rispetto ai milioni che acquistano beni importati. I prezzi più alti per i consumatori funzionano quindi come una riduzione implicita dei salari, laddove prima della liberalizzazione i prezzi più bassi dovuti alla produzione estera erano per lo più compensati dalla perdita di posti di lavoro ben retribuiti. Dati storici ed empirici suggeriscono inoltre che i dazi tendono a ridurre l’occupazione totale una volta che si avvertono gli effetti collaterali.

Di conseguenza, la classe operaia diventa “danno collaterale” nel tentativo di rafforzare il potere industriale, una retorica che legittima le misure “America First” che in realtà avvantaggiano solo un piccolo segmento degli interessi capitalistici. I lavoratori sopportano i pesi di queste politiche sotto forma di inflazione e crescita economica più lenta, mentre i capitalisti ne traggono profitto. Inoltre, queste misure aumentano la divisione tra lavoratori oltre i confini, mettendo in contrapposizione posti di lavoro americani con lavoratori cinesi o messicani.

Fino alle banchine

Un aspetto che ha ricevuto relativamente poca attenzione sono i dazi di ancoraggio proposti. L’Ufficio del Rappresentante Commerciale degli Stati Uniti (USTR) ha proposto di introdurre costi fino a 1,5 milioni di dollari per ogni sosta in porto delle navi gestite da aziende cinesi o costruite nei cantieri navali cinesi. Le tariffe più alte si applicano alle navi che sono sia di proprietà sia costruite da entità cinesi. Tariffe leggermente più basse riguardano le navi straniere costruite in Cina. Inoltre, le compagnie di navigazione che hanno più della metà della propria flotta costruita in Cina potrebbero dover sostenere questi costi per l’intera operatività.

L’introduzione di questi costi ha portato a un notevole calo del traffico marittimo tra Cina e Stati Uniti. Grandi porti americani, come Los Angeles, hanno registrato una riduzione fino al 35% dei volumi di importazione dalla Cina. Questo calo è attribuito a viaggi cancellati e al dirottamento del carico per evitare gli alti costi.

Il trasporto globale via container registra un aumento dei cosiddetti “blank sailings”, ovvero viaggi programmati cancellati. Questo è largamente interpretato come una risposta ai nuovi dazi e costi, che hanno ridotto la domanda, costringendo le compagnie di navigazione ad adattare le operazioni, portando a porti vuoti.

Questo provoca una riorganizzazione della capacità navale. Le navi costruite in Cina vengono dirottate verso rotte non americane o concentrate in grandi porti americani, come Los Angeles, causando in alcune zone congestione portuale, mentre altri porti restano vuoti. Le compagnie di navigazione americane ed europee che utilizzano navi non cinesi assorbono il traffico verso gli USA, aumentando la pressione sulla logistica marittima.

È probabile che i costi aggiuntivi vengano trasferiti ai consumatori e possano aumentare i costi di trasporto da 600 a 800 dollari per container. Questo incremento potrebbe causare fino a 30 miliardi di dollari di costi extra annuali per i consumatori statunitensi, aumentando così la pressione inflazionistica.

Questi dazi di ancoraggio possono essere visti come una reazione diretta al dominio cinese nella flotta mercantile mondiale. La Cina costruisce oltre la metà delle VLCC (Very Large Crude Carriers, cioè navi cisterna per greggio molto grandi), e questa politica rappresenta in parte una forma di guerra logistica sulle rotte verso gli USA. Allo stesso tempo, potrebbe essere anche un tentativo di ridare nuova vita all’industria cantieristica americana, che è in declino da decenni. Il problema è che attualmente non esistono cantieri navali negli Stati Uniti in grado di costruire VLCC.

Al momento non esistono navi capaci di trasportare il gas naturale liquefatto (LNG) costruite negli USA, e i cantieri navali americani non hanno la capacità per farlo. Questo rappresenta una seria minaccia per l’esportazione di LNG, che vale 34 miliardi di dollari all’anno. Se questo scenario si realizzasse, l’export statunitense potrebbe diminuire drasticamente, con perdite di entrate fino a 250 miliardi di dollari all’anno. Le esportazioni agricole potrebbero calare del 16%, mentre quelle di petrolio greggio e carbone potrebbero scendere dell’8%.

Queste realtà rappresentano anche ostacoli alla richiesta di Trump che l’UE aumenti di dieci volte le sue importazioni di energia dagli Stati Uniti, senza che sia chiaro se questa capacità esista davvero. Soprattutto in un continente dove gli USA devono competere con i gasdotti, un crescente focus sulle energie rinnovabili e dove, nonostante le tensioni, la Russia rimane il principale fornitore di LNG.

Che fare ora?

La fredda reazione dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri emerge dalle dichiarazioni di funzionari UE, come il commento del ministro tedesco dell’Economia, Robert Habeck, che ha definito le politiche dell’amministrazione Trump “sciocchezze”. Controsanzioni, tra cui il dazio del 25% sulle merci americane (temporaneamente sospeso) e i dazi di ancoraggio, sono state introdotte per proteggere le industrie europee e al contempo lanciare un segnale di resistenza contro il protezionismo americano. Questi dazi, che si prevede aumenteranno i prezzi per i consumatori e ridurranno le esportazioni europee verso gli Stati Uniti di quasi un quinto, hanno spinto l’UE a diversificare le sue relazioni commerciali, soprattutto rafforzando i legami con la Cina. In particolare, i dazi di ancoraggio rivolti alle navi cinesi hanno disturbato il trasporto marittimo globale, aumentato i costi per i vettori europei e causato un calo del 35% dei volumi di importazione dalla Cina verso gli USA.

L’UE e la Cina stanno ora lavorando per revocare le sanzioni imposte nel 2021 e negoziano rotte marittime alternative e maggiori investimenti cinesi nei porti europei per aggirare le restrizioni americane. Inoltre, l’UE ha rifiutato un’offerta americana di abolire i dazi in cambio di un irrigidimento della sua posizione verso la Cina. Questa strategia è in diretto conflitto con la dura politica anti-Cina degli USA nel loro tentativo di riorientarsi economicamente verso l’Asia.

Le misure economiche e commerciali adottate avranno profonde e diverse conseguenze sulle classi operaie sia negli Stati Uniti che nei Paesi Bassi. Negli USA, politiche protezionistiche come dazi all’importazione, dazi di ancoraggio e barriere commerciali dovrebbero aggravare la disuguaglianza dei redditi, con la classe operaia che sopporta i costi sotto forma di prezzi al consumo più alti, potere d’acquisto ridotto e insicurezza lavorativa in settori dipendenti da catene di approvvigionamento globali. I presunti benefici per l’industria interna si limitano a pochi settori e offrono poca crescita occupazionale rispetto alla pressione economica diffusa sui consumatori e sulle industrie non protette.

I Paesi Bassi, in quanto Stato profondamente integrato nel sistema economico europeo, sentiranno gli effetti indiretti delle politiche americane attraverso le interruzioni globali delle catene di approvvigionamento e contromisure come i dazi europei. Tuttavia, il passaggio dell’UE verso partner asiatici potrebbe attenuare alcuni effetti negativi, mantenendo una certa stabilità economica per i lavoratori olandesi. Nonostante ciò, la tendenza generale in entrambi i contesti riflette un rafforzamento degli interessi capitalistici a spese della classe operaia, evidenziando come il nazionalismo economico sia spesso solo una copertura per politiche che in realtà concentrano ricchezza nelle mani dell’élite.

Articolo precedente

Il premio a Salvini e il carattere ...

Articolo successivo

Vita politica internazionale – Trentanovesimo numero

0
Condiviso
  • 0
  • +
  • 0
  • 0
  • 0
  • 0

Redazione

Articoli correlati Altri articoli dell'autore

  • Sugli sviluppi riguardanti l'attacco israeliano all'Iran
    VPI - Articoli

    Sugli sviluppi riguardanti l’attacco israeliano all’Iran

    22/06/2025
    Di Redazione
  • La guerra degli Stati Uniti contro i palestinesi e la lotta per opporsi ad essa
    VPI - Articoli

    La guerra degli Stati Uniti contro i palestinesi e la lotta per opporsi ad essa

    02/03/2025
    Di Redazione
  • I sei de La Suiza: “Se si reprime qualcuno perché si ribella, si genererà una risposta unitaria”
    VPI - Articoli

    I sei de La Suiza: “Se si reprime qualcuno perché si ribella, si genererà una risposta unitaria”

    20/07/2025
    Di Redazione
  • Contro il riarmo: costruire l'opposizione operaia
    VPI - Articoli

    Contro il riarmo: costruire l’opposizione operaia

    27/04/2025
    Di Redazione
  • T-MEC e socialdemocrazia
    VPI - Articoli

    T-MEC e socialdemocrazia

    30/03/2025
    Di Redazione
  • Trump e Bolsonaro, giù le mani dal Brasile!
    VPI - Articoli

    Trump e Bolsonaro, giù le mani dal Brasile!

    20/07/2025
    Di Redazione

Ti potrebbe interessare

  • minneapolis in fiamme
    Politica

    George Floyd, quando la violenza della polizia è oppressione di classe

  • Notizie dal mondo

    Un esempio di repressione anticomunista in Russia

  • Magazzino
    Rassegna operaia

    La logistica futura

Leggi anche…

Casa popolare

Emergenza casa: serve un ribaltamento del paradigma, non elemosine omeopatiche

28/04/2020 | By Tommaso Vaccaro
Calabria sanitari covid basta precarietà

Altro che eroi, assunti per l’emergenza Covid e ora rischiano il posto: la mobilitazione degli operatori sanitari in Calabria

30/06/2021 | By Domenico Cortese
FIOM

Metalmeccanici in movimento. Note dall’assemblea dell’opposizione FIOM

30/10/2020 | By Redazione
Covid 19 Fabbrica

Dichiarazione dell’Iniziativa del Partiti Comunisti e Operai d’Europa sulla nuova ondata della pandemia

26/10/2020 | By Redazione

seguici:

  Facebook  Instagram  Twitter

contattaci:

  Contattaci
Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia. Possono dunque esserne ripresi altrove i contenuti: basta citarne la fonte. "L'Ordine Nuovo" è un sito web di informazione indipendente e non rappresenta una testata giornalistica ai sensi della legge 62/2001. Qualora le notizie o le immagini pubblicate violassero eventuali diritti d’autore, basta che ci scriviate e saranno immediatamente rimosse.